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DOSSIER
ANTONIONI ZOOM
INTRO
Jonny Costantino
In nessun uomo c’è un uomo solo
[scritto a mano con penna blu su un foglio a righe molto
ingiallito].
Michelangelo Antonioni
Il termine zoom –
inizialmente impiegato per indicare un tipo di obiettivo a distanza focale
variabile – ha finito per designare un procedimento cinematografico.
Quando si dice zoom s’intende il movimento
ottico con cui si stringe o si allarga l’inquadratura. C’è quindi lo zoom in: dal paesaggio al corpo, dalla
figura al volto, dal primo al primissimo piano; ci si addentra, si partecipa a
un pensiero, a un’emozione. E c’è, all’inverso, lo zoom out: ci si allontana, si prendono le distanze dal personaggio,
lo si lascia al suo destino – e il destino è un’esclusiva dell’arte,
perché qui, a differenza della vita, a deciderlo c’è un demiurgo, un
capriccioso burattinaio: l’autore.
Tale ripartizione è però ortodossa, vale giusto per un orientamento
tendenziale. Gli effetti dei due procedimenti possono darsi invertiti: lo zoom
in avanti può farci perdere il personaggio, portandoci dall’unicità di una
faccia all’impersonalità di una lacrima, così come lo zoom all’indietro può
metterlo a nudo, il personaggio, rendendolo parte di un contesto svelato quale
correlativo oggettivo del suo didentro.
Anche con questo rovesciamento, tuttavia, restiamo lontani
dall’esaurire il discorso. C’è nel cinema la questione delle forme e dei colori
(e colori sono anche le tonalità del grigio), forme e colori coi quali ogni
movimento di obiettivo o di macchina deve misurarsi, soprattutto se il regista
è un cineasta pittore del calibro di Michelangelo Antonioni.
C’è un
rapporto, secondo me, tra i movimenti di macchina e il colore. Il verde
sopporta meno del rosso una panoramica veloce. Il nero assimila meglio del
bianco una zummata [dattiloscritto].
Quanto è rischiosa una zummata!
Poche cose in un film ci disturbano di più di una zoomata maldestra. E quanto è
intima una zoomata! Vittorio De Seta una volta mi raccontò di aver applicato un
prolungamento artigianale alla levetta dello zoom della cinepresa 16mm usata
nel documentario In Calabria (1993):
era necessario affinché lo zoom acquisisse la giusta morbidezza e assecondasse
senza strappi, alla pressione del dito, la velocità del suo occhio.
[…]
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L’ARTE DI RACCONTARE I LUOGHI,
INVECE DELLE STORIE CHE VI SONO ACCADUTE
Sandro
Bernardi
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Stradina silenziosa
L’inizio è molto lontano, nei primi appunti e articoli di Antonioni
giovane giornalista. Per esempio in una pagina altrettanto affascinante quanto
il suo ultimo film, dedicata a una stradina quasi sconosciuta (Strade a Ferrara, Corriere Padano, 8
ottobre 1938). Una stradina desolata, insignificante, dice all’inizio il
narratore-descrittore-poeta, che si percorre in tre minuti, che non ha niente di
rilevante, anzi appare crepuscolare, sembra ripiegata su se stessa, intima e
pudica, dove la gente capita solo di passaggio, attraversandola, e dove il
vento odora di muffa, cioè di oblio, dimenticanza, appunto. Eppure, questa
strada ha una vita, e una storia. Ma Antonioni si guarda bene dal raccontarla,
piuttosto accenna. Di passaggio veniamo a sapere che era un tempo importante
per l’arte del cuoio, a Ferrara molto affermata nel Rinascimento, e che un
angolo è stato testimone, tanto tempo prima, di un assassinio. Ha anche una sua
vita attuale, questa stradina insignificante: anche se pare del tutto
addormentata ormai, fuori dalla storia e dalla vita, altre volte, al calore
estivo, si può essere testimoni di un suo furioso risveglio; quando il sole fiammeggiante
lascia filtrare dagli alberi che la cingono, una luce violenta che riverbera
selvaggia sui sassi, sul muro ricoperto in cime da cocci di bottiglia che
ricordano delle foglie (l’interesse di Antonioni per la pittura astratta è
precocissimo e diventerà sempre più intenso) la stradina si trasforma quasi in
un mare incantato, fra onde gialle e ametista. Altre volte invece sembra
letteralmente sconvolta da un delirio di pioggia scrosciante, e fra i sassi
appuntiti della carreggiata antica, cominciano a scorrere rivoli d’acqua sempre
più veloci. Una violenza arcaica, naturale, nascosta sotto la superficie
spenta, come in un vulcano. Poco dopo, passati questi deliri di acqua e di
sole, ritorna placida e inerte, come senza vita. È una strada cara solo agli amanti
di certa atmosfera, com’è il giovane Antonioni – «Atmosphère, atmosphère…
est-que j’ai une gueule d’atmosphère?», dirà poi Garance-Arletty, in uno dei
grandi film francesi, che saranno fra i più amati dallo stesso Antonioni, Les enfants du paradis (Carné, 1945).
Atmosfera, atmosfera, ho forse una faccia da atmosfera? Lo potrebbe dire, in
tono sarcastico, anche la stradina di Antonioni. Altro che atmosfera, ha ben di
più: ha il ricordo di una storia, di un evento terribile, su cui l’autore
glissa sapientemente, lasciando il lettore nel buio più completo e con l’animo
pieno di desideri, ipotesi, immaginazioni. Un poeta assassinato, di cui ormai
solo una piccola lapide conserva ancora il ricordo. Ma chi sarà mai? Basta una
breve ricerca per scoprirlo: vediamo prima di tutto che cosa dice questa
lapide, a cui il regista accenna solo di passaggio:
PER
NOTTURNO AGGUATO / QUI / CADEVA TRAFITTO /
ERCOLE DI TITO STROZZI / POETA E FILOLOGO / RIPUTATISSIMO / 1508
[…]
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PER LASCIARE L’AMORE ESSERE
NIENTE
Maria Grazia Calandrone
Il corpo è bello e semplice come un albero. Quando è al sole gioisce
come un albero. Sarebbe così semplice essere felici. Basterebbe guardare.
Eppure.
Sullo scarto doloroso e a tratti incomprensibile tra natura arborea e
amore umano scivolano l’acqua e la nebbia di Identificazione di una donna di Antonioni.
Useremo come manuale di istruzioni per la lettura di “questo”
Antonioni lo splendido Fondamenta degli
incurabili di Iosif Brodskij, 51 parti di prosa dedicate a Venezia. Presto
sapremo il perché. Intanto, godiamoci queste prime righe di sempre esuberante
parlar d’amore. Perché l’amore è un franco fenomeno di dislocazione delle
nostre abitudini in un cielo senza segnali, quasi completamente bianco, al
quale occorre dire idiotamente sì, non domandare niente: vi affiora solo il
volto dell’amato. Nel film lo slittamento è approfondito dal lieve accento
cubano di Tomas Milian (Niccolò). In amore occorre guardare l’altro – qui
l’altro è una magnificente Daniela Silverio (Maria Vittoria) – come una
divinità primordiale che per ragioni a noi sconosciute si è infilata nel corpo
tutta la nostra vita e soprattutto la nostra maraviglia, il nostro rimanere
davanti a lei fermi a nostra insaputa come idoli. Il vuoto che ha preceduto il
tuo corpo ora ha una sua incarnazione commossa, la solitudine che ti ha
preceduta ha formato un serio lavoro manuale da compiere sopra e dentro il tuo
corpo, che porta uno stemma di stupore sulla fronte, mentre affonda –
continuamente solo davanti a me – nell’inspiegabile che avviene nelle
profondità della tua carne. E io, Maria Vittoria, ricambio chi mi ha svelato il
volto della mia stessa gratitudine. Il tuo corpo è stato definito, realizzato e
circoscritto dal silenzio del mio amore. Qui c’è tutta la generosità dei fatti,
una necessità buona. Io sono grata alla tua fermezza di idolo. Mentre il vuoto
che viene valicato sul corpo di Maria Vittoria è un vuoto astrale: sono le
piante dei piedi, i fari delle macchine, i segnali che vengono perduti, il
vuoto urbano quando le leggi della natura non contano. Eccolo, Iosif Brodskij: l’amore è superiore, anch’esso è più grande
di chi ama. L’oggetto alieno dell’amore immaginiamo sia anche rappresentato
dalla formazione anomala sul ramo del pino davanti alla casa di Niccolò –
che non è nido né alcuna altra cosa riconoscibile. Ma tra uomini e donne non
funziona così. Per lo meno, non solo. A un tratto siamo nel deserto bianco di
una nebbia boschiva, luogo popolato da abitatori traslucenti, ovattati,
inenarrabili; da pericoli oscuri riassunti nell’incombere di una rapina. Ora
stiamo scappando da un persecutore – perché, nel film, la metafora del
pericolo chiuso come un uovo in ogni amore, la scoperta paurosa del
pianeta-altro – con tutta la sua rete di relazioni fino a un momento fa
sconosciute – viene coagulata nella vera persecuzione da parte di un
rivale. Dunque la coppia intraprende il suo viaggio nella nebbia per
raggiungere la casa comune, che però è una casa sul vuoto, vinta dal tempo che
si è scavato i suoi canali sotto le fondamenta – ormai incurabili –
della relazione, con i suoi abitatori selvaggi come uccelli: vicini e
irraggiungibili.
Se scappiamo l’amore è perduto.
[…]
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