(CINE)LETTERATURA
FARE IL REGISTA?
Ottiero Ottieri
Nel 1961 Tonino Guerra
chiama a Roma lo scrittore Ottiero Ottieri per collaborarare alla sceneggiatura
della Notte di Antonioni, a cui sta
lavorando assieme a Ennio Flaiano e al regista stesso. Nel film, Ottieri fa
anche una fugace apparizione tra gli scrittori invitati a una festa della casa
editrice Bompiani. L’anno successivo, dopo una grave depressione, si ritrova a
lavorare con Antonioni, assieme a Tonino Guerra ed Elio Bartolini, alla
sceneggiatura dell’Eclisse. «Perché
ho lavorato con Antonioni? Perché pensavo a lui da tempo e perché,
conoscendoci, abbiamo fatto amicizia. Una mia piccolissima collaborazione alla Notte ci ha legato in simpatia. Poi,
quasi indipendentemente dal tipo di nuovo film che voleva fare, mi sono sentito
attratto a collaborare con la sua sensibilità in genere, anche quando non la
capivo; con la sua forza morale e artistica, senza clamore; con la sua
solitudine, senza ossessione; con la sua malinconia, però vitale; con la sua autorità,
senza prevaricazione; tutte cose che capivo da sempre […]. Quando lavoravamo
insieme alla sceneggiatura, sulle intenzioni, sulla carta e parlando, quando la
pellicola era di là da venire, due elastici ci univano e resistevano agli
strappi: il problema dei sentimenti (qualcuno lo chiama psisologismo, ma
pazienza), e quello di alcune strutture avanzate del mondo contemporaneo». Così
Ottieri racconta nel suo inedito Taccuino
mondano 1958-1964 l’esperienza
creativa con Antonioni, regista che gli ricorda, nel cinema, quello che Adriano
Olivetti è stato nell’industria (Ottieri lavora come selezionatore del
personale per la Olivetti dal 1953 al 1960). Quella che intercorse con
Antonioni si può definire una reciproca infatuazione intellettuale. Negli anni
in cui Michelangelo metteva a fuoco filmicamente il concetto di incomunicabilità, Ottiero esplorava
letterariamente quello (limitrofo e complanare) di irrealtà. Scrive il narratore in L’irrealtà quotidiana (Bompiani, 1966): «Ha avuto una ben esatta
intuizione, Antonioni, nel chiamare L’eclisse i cui veri protagonisti sono l’irrealtà oggettiva, e non autopercepita, di lui
e il sentimento d’irrealtà soggettivo, autopercepito, di lei. Questi
fantasmatici protagonisti impediscono l’amore fra lui e lei, mettono legittimamente
e filologicamente nel film il tema della alienazione non da salotto e una sorta
di suo sviluppo in reificazione-cosificazione: nel finale del film si assiste
alla scomparsa, all’assenza dei personaggi umani e non a una loro cosificazione
ma alla venuta in primo piano delle cose. L’egemonia delle cose è uno dei
fenomeni più concreti di ogni alienazione: non tanto come cosificazione di se
stessi, quel sentirsi ridotto a cosa che è più una metafora che una realtà
verosimile (l’uomo non è mai abbastanza cosa o vuole esserlo troppo); quanto
perché ogni alienazione ed eclissi vitale esaspera il sentirsi attorno gli
oggetti, ossessivizza il rapporto con essi, esasperandoli. Inutili a
consolarmi, mi stanno intorno con prepotenza, non vedo che la loro prevaricazione,
non mi occupo che di loro, mi annoio di loro, soffro di loro. Nel dolore,
valgono più di me. Quando io non mi amo, odio loro, i permanenti, i costanti, i
monotoni, i duri». Nell’autoprefazione a L’impagliatore
di sedie (Bompiani, 1964), di cui riportiamo un ampio estratto, Ottieri
racconta come l’incontro e la collaborazione abbiamo scatenato in lui un
profondo desiderio di “mettersi in proprio”, cioè di far cinema. Nato il 29
marzo 1924, Ottiero Ottieri muore dieci anni fa, il 25 luglio 2002. [ndr]
[…] Lo
scopo prinicipale di quest’autoprefazione è avvertire che questo libro è una
sceneggiatura cinematografica. E che, nello stesso tempo, non è una
sceneggiatura cinematografica.
Le
sceneggiature cinematografiche di solito sono illeggibili, noiose anche quelle
dei film più divertenti. Il mio racconto desidererebbe farsi leggere e non
essere tanto noioso, naturalmente. Che cosa è accaduto dietro di esso?
In
ritardo rispetto ad altri colleghi – ripeto, sono un tardivo – sono
stato preso da smanie cinematografiche, dalla voglia di fare, proprio io, un
film. Credo che il fenomeno abbia per la letteratura una certa base storica e
per gli scrittori una base biografica: tanto più quanto più lo scrittore si
avvicina da soggettista o sceneggiatore al mondo del cinema non solo per
guadagnare ma per confrontarsi con un altro, popolarisssimo, mezzo espressivo
dell’epoca. Mi è capitato di lavorare con il più interessante regista italiano,
uno dei migliori del mondo [Michelangelo Antonioni, ndr]. Senza sua colpa, per la necessità obiettiva della struttura ,
ho provato i morsi dell’alienazione da sceneggiatura, un’alienazione che non ha
nulla da invidiare a quella classica dell’operaio moderno e che necessariamente
rimbalza, si compensa nel desiderio di “mettersi in proprio”. Fare il regista?
Sì, fare il regista. Con questa meta o con questo mito, mi sono messo a
scrivere una sceneggiatura per me. Ma soprattutto spinto da tre ispirazioni.
Prima: una storia in cui credevo, come la storia di un vero libro, non una
sottostoria periferica rispetto ai miei interessi; una di quelle che nel corso
della vita si pongono come insostituibili e ineliminabili, e che tuttavia io
“vedevo” come film e “non sentivo più” come romanzo. Perché , direi, troppo
realistica, troppo figurativa rispetto a mie nuove tendenze di un informale
psicopatologico. Avevo insomma bisogno della coplicità del cinema per
proseguire nella mia ricerca realistica, cominciando a spostarla verso un
realismo, più che critico, clinico. Vivevo il cinema come un mezzo
legittimamente figurativo e il mio stesso istinto realistico (non diciamo
naturalistico) vi si è attaccato per difendersi dagli assalti oscuri,
misteriosi, dell’informale.
[…]