DITTICI
AMOUR
AMOUR: A MORT
RIFLESSIONI
SU UN TEMA DI HANEKE
E SULLA SUA
RAPPRESENTAZIONE CINEMATOGRAFICA
Sandro Sproccati
La morte è irrappresentabile,
inenarrabile, indicibile... Non solo la propria morte, che sarebbe fin troppo facile, ma la morte in generale, la morte altrui,
la morte che ti sorprende, la morte che ricordi a lungo, i pensieri della morte
che t’incombono vicini, l’ala della morte che fin dalla nascita muove freschi
brividi dietro il tuo capo, gli effetti della morte sul corpo (che non è più
corpo ma cadavere) di chi hai amato e anche di chi non
conoscevi affatto... La morte è l’indicibile. Giacché, con il
pensiero e l’ardore di chi muore, annienta la parola di chi assiste, e rende memoria – vale a dire costruzione
ingannevole di immagine, rappresentazione artificiosa,
fasulla – il soffio ardente di colui o colei che ha vissuto, di chi è
stato nel contatto della vita, presente in essa e ad essa.
La morte in Dostoevskij è
intravista, accarezzata, allusa, quasi rappresentata, ma solo perché
Dostoevskij ebbe l’orrendo privilegio di guardarla negli occhi: le canne dei
fucili spianate contro di lui, la spada alzata del comandante di plotone, un
attimo ancora e lo schianto luminoso che si abbatterà per sempre come
un’esplosione cosmica, facendo sprofondare il tutto nel nulla... Poi nulla:
solo uno scherzo “atroce”, degno letteralmente (questa volta sì) dell’infamia di Atreo. E tutta la vita che permane, che si
riapre... ma per così dire: segnata per sempre da una morte conosciuta e dunque riconoscibile. Chi non ha provato
questo, almeno questo, è in verità
salvo, in quanto è “fuori” dal cerchio (dal buco nero)
della morte e, per sua grazia, non la conosce affatto.
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