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I POPOLI E LA PAURA DI ESTINGUERSI
RIFLESSI DEL TEMPO NEI RITI DI INIZIAZIONE


di Folco Quilici

 

a cura di Vito Contento

 

 

Filmando nel mondo Papua in Nuova Guinea (settembre 1969)

 

 

Occorre muoversi senza perder tempo, perché la decomposizione della memoria, l’abbandono di tradizioni, riti e credenze tramandate da generazioni, dagli anni Sessanta in poi si sta rivelando fenomeno sempre più veloce.

 

Volti e braccia e gambe dei papua melanesiani. Protuberanze mostruose, a provocarle sono mascherature di fango, ritualmente create dagli abitanti di un villaggio nell’alta Roka Valley, nel cuore montuoso di quell’isola-continente chiamata Nuova Guinea.

Nell’approssimativo inglese, lingua franca delle genti melanesiane, sono detti: mudman.

Mi aveva parlato di loro, nella cittadina di Goroka, un mercante impegnato nel commercio del particolare caffé che in Nuova Guinea cresce spontaneamente in alta montagna e che per il suo ottimo sapore gode di un discreto valore commerciale, tanto da suggerire ad alcuni mercanti coraggiosi d’inerpicarsi con una jeep o con dei cavalli sino alle valli più remote, raccoglierlo e rivenderlo poi nei mercati delle città costiere.

Visto il mio interesse ad un suo accenno ai mudman, accettò di condurre la nostra piccola troupe sino al villaggio arroccato nella zona montana del territorio di Lae; nel settembre 1969 raggiungibile solo risalendo una tortuosa pista.

Quando vi giungemmo e ci muovemmo tra le capanne cercando qualcuno con cui poter parlare e chiedere il permesso di fotografare e filmare i mudman, nessuno si mosse; le donne sedevano in silenzio, alcuni vecchi ci fissavano immobili. La nostra guida anziché preoccuparsi, si rallegrò, se il villaggio si presentava semivuoto, le informazioni da lui raccolte a fondo valle risultavano esatte. Doveva essere proprio quello il giorno del ritorno dei morti.

Chi non era direttamente coinvolto, doveva restare immobile davanti alla sua capanna, sino al momento in cui gli uomini butterati da croste di fango sarebbero tornati al villaggio. Apparizione attesa da tutti; forse temuta da chi non aveva onorato adeguatamente un suo parente defunto.

 

Dopo alcune ore d’attesa, i defunti apparvero.

E quando li ebbi davanti, così truccati, mi parvero nati dalla fantasia di un artista dedito alla creazione di ritratti mostruosi.

In un’intermittenza di memoria, quasi un’immagine fissa, quell’apparizione mi riportò in Africa, in Amazzonia, in India, dove altri gruppi si coprivano di mascherature deformi, sia nelle vesti sacrali, sia in maschere tradizionali: i dogòn del Mali, i lamidò del Camerun, i bobo dell’Alto Volta; sempre preceduti da fragorose percussioni o suoni a fiato o canti o grida, di festa come di paura. Quella comparsa dei mudman avvenne invece in assoluto silenzio.

Con passi impercettibili uscirono uno ad uno dal bosco attorno al villaggio, ognuno eseguendo una sorta di personale, lentissima danza.

Patine di fango, come infezioni, coprivano i corpi. Le teste, infilate in zucche cave spalmate anch’esse di fango, mostravano piccoli fori per occhi; la bocca decorata con

denti di gatto o di cane. Ricurvi denti di facocero per raffigurare il naso ornavano la parte centrale d’ogni maschera.

 

Il fango screpolato, sbiancato, offriva immagini di deformazione. La decomposizione della morte.

Tutti sapevano chi si nascondeva sotto quella maschera, ma nello stesso tempo ognuno di loro vedeva in quell’orrida apparizione, il ritorno di questo o quel morto. Eppure, m’avrebbe poi spiegato un etnologo australiano studioso dei mudman, la cerimonia è positiva; quel ritorno dei defunti in un certo senso era una festa, perché vittoria sull’evento più temuto: la fine della vita.

Una magia può toglierla all’uomo, un’altra può concedergli di tornare al mondo.

Un mistero compensa l’altro, nella liturgia delle etnie sopravvissute a un tempo senza dimensione.

 

 

 

 
 

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