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LO SCALPO DI
DILLINGER
Su Nemico pubblico (2009, di Michael Mann)
di Dario Melossi
Uno dei
“padri fondatori” della sociologia, il grande Emile Durkheim, riteneva che una
funzione fondamentale della criminalità, e dei “grandi criminali”, fosse quella
di fornire al resto di noi quel senso di sdegnata reazione a cospetto dei loro
misfatti che conferisce significato alla nostra “coscienza collettiva”. Come scriveva uno studioso contemporaneo di John Dillinger e
che come lui avrebbe frequentato le bollenti strade di Chicago tra anni venti e
primi anni trenta, il filosofo e psicologo sociale George Herbert Mead, «il
criminale non mette seriamente a rischio la struttura della società con le sue
attività distruttive, epperò al tempo stesso è responsabile per un senso di
solidarietà che si crea tra coloro la cui attenzione tenderebbe invece ad
accentrarsi verso interessi alquanto divergenti gli uni dagli altri». Per cui,
conclude Mead, «la giustizia penale può svolgere una funzione essenziale per la
conservazione dell’ordine sociale anche quando consideriamo l’impotenza
dell’attacco del criminale contro la società, così come il goffo fallimento del
diritto penale nei suoi apparenti sforzi di repressione e soppressione della
criminalità». Queste parole, provenienti da una
delle colonne portanti del pragmatismo americano e della Scuola di Chicago in
particolare, pubblicate quando il giovane John Herbert Dillinger aveva appena
14 anni e viveva nella vicina Indianapolis dove era nato, potrebbero essere
poste ad epitaffio del destino che avrebbe aspettato John Dillinger nella sua
breve ma intensa carriera. Un altro grande della filosofia sociale, francese
come Durkheim ma più vicino a noi, Michel Foucault, avrebbe a sua volta
contribuito a dare una nuova veste a questo antico tema, laddove, in Sorvegliare
e punire, ci parla di una sorta di
“dialettica” tra “illegalismi” e “delinquenza”, una traduzione letterale del
termine francese che potremmo ben rendere anche con “criminalità”.
Anche la
storia che si dipana nel bel film di Michael Mann, Public Enemies, basato sul libro di Bryan
Burrough dallo stesso titolo, si destreggia tra l’“illegalismo”
di Dillinger e gli sforzi della società ufficiale americana, in primis un FBI
ancora semplicemente “Bureau of Investigation” ma già sotto il comando del
padre-padrone che lo guiderà sino alla morte, John Edgar Hoover, per
trasformare tale illegalismo in pura e semplice delinquenza. Secondo Foucault,
infatti, “illegalismo” è il tipo di criminalità che non è facilmente
inquadrabile negli schemi, che non è gestibile dalla società ufficiale
attraverso gli strumenti delle forze dell’ordine, della magistratura e
dell’opinione pubblica, che mette in discussione l’ordine sociale e giuridico
nello stesso modo in cui, nella Francia del diciottesimo secolo, poteva
accadere che la folla che si accalcava intorno al palco dei condannati a morte
inneggiasse ad essi e alle loro efferate imprese. Ben diverso è il caso invece
della “delinquenza”, la criminalità sottomessa al, e gestita dal, potere, la
criminalità che è per definizione “utile”, ritrovo di spie e informatori,
reclutatrice di crumiri e agenti provocatori, bande di gangsters al soldo di
pubblici ufficiali e capitani d’impresa senza scrupoli, criminalità organizzata
che si incarica di fornire quei beni e servizi che la società ufficiale non è
in grado di bandire completamente ma che d’altro canto non può neanche
apertamente riconoscere come leciti (massimamente, negli anni venti del secolo
scorso, in America, l’alcol, più tardi si tratterà del gioco e dopo ancora di
quella nascente nuova miniera d’oro, le “droghe”). Dillinger non farà mai parte
di questo mondo, aiutato forse da esso all’inizio – così ci mostra il
film di Mann – sempre più osteggiato alla fine perché, cane sciolto e
solitario, è diventato pericoloso per gli interessi di questo mondo e del suo
instabile equilibrio con le agenzie di controllo. Per tutta la vita di
Dillinger, in pratica racchiusa nell’intenso anno che va dalla sua
scarcerazione dall’Indiana State Penitentiary nel maggio 1933 a quando cadrà
sulle strade di Chicago nel luglio dell’anno dopo, la stampa lo costruisce come
eroe e lo dileggia come pericoloso delinquente, in un’altalenarsi che disegna
una vera e propria lotta per l’egemonia culturale che si svolge intorno alla
sua figura e in cui sempre più si insinua decisa la lunga mano di J. Edgar
Hoover e la presenza sempre più incombente del nuovo potere federale che segna
gli anni del New Deal rooseveltiano.
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Cfr. Emile Durkheim, La
divisione del lavoro sociale (1893), Edizioni di Comunità, Milano 1999 e Id., Le
regole del metodo sociologico (1895), Edizioni di Comunità, Milano 1979.
Cfr. George Herbert Mead, “The Psychology of Punitive Justice” (1917-1918), pp.
212-39 in G. H. Mead, Selected Writings, Bobbs-Merrill,
Indianapolis 1964, p. 227
(mia traduzione).
Cfr. Michel Foucault, Sorvegliare
e punire: Nascita della prigione (1975), Einaudi, Torino 1976, pp. 282-323.
Cfr. Bryan Burrough, Public
Enemies: America’s Greatest Crime Wave and the Birth of the FBI, 1933-34, Penguin Press, New York 2004.
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