rifrazioni dal cineama all'oltre
 

www.rifrazioni.net /cartaceo/rifrazioni 7/estratti/linee

 

INTRO DOSSIER FOLGORAZIONI

 

Jonny Costantino

 

Che la tua felicità sia divisa in folgorazioni…

Marcel Schwob, Il libro di Monelle

 

La folgorazione è un incidente. Ci coglie alla sprovvista tramortendoci. Non è colpa della nostra strategia difensiva: pur avendo una guardia impeccabile (pugni alti, busto eretto, piedi piantati), può succedere che un colpo arrivi da dove non ce l’aspettiamo, e si va al tappeto – capita ai migliori boxeur. La folgorazione è un incidente della mente, percorsa da un’improvvisa insospettata abbagliante evidenza. Nonché un incidente dell’anima: elettrizzata, illuminata. «Talvolta, tuttavia, guardandoci attorno ci accorgiamo che non tutti hanno un’anima. Non è un accessorio di serie al regalo della vita». A parlare così è il regista russo Aleksandr Sokurov. Egli sa, e noi lo sappiamo, che un’anima va guadagnata, che un’anima può conflagrare, non superare la prova del fuoco che la fa venire alla luce, come sa che, una volta nata, un’anima può morire bambina, o adulta schiattare per assideramento, che sono innumerevoli i modi in cui si lesiona, si spezza, si disintegra. Finché ancora possiamo, finché non è persa, finché non siamo perduti, le va dato il colpo di grazia per rifarsela più dura ed elettrica, a prova di offesa ma non di folgore.

 

È lo shock dell’universale sfavillante nel particolare a folgorarci in un’opera. Un elettroshock che, mentre ci sospende nella vertigine, ci fa sentire il (funambolico stare sul) filo della nostra unicità. La folgorazione è l’esperienza del fuori che ci piomba dentro e attecchisce tramite ustione, dopo aver incenerito la membrana divisoria, mentre la figura dell’altro balugina in una sintesi inedita. Ed è nel didentro – nei connotati dell’altro, in forma di rappresentazione – che possiamo scorgere con maggiore consapevolezza il nostro volto, quello attuale, quello potenziale. La nostra faccia – nel corso del tempo, nel farsi anima del tempo – si scolpisce di conseguenza. Anche una faccia, non meno di un’anima, bisogna conquistarsela, esposta com’è allo squasso di dinamiche vitali, alla torsione di impulsi contrastanti, dinamiche e impulsi continui che – affacciandosi a fior di nervi – ci rimodellano senza tregua i lineamenti, prima che subentri il rigor del capolinea.

 

Una vera folgorazione è un prodigio ustorio, ma pure incisorio. Un segno ce lo lascia sempre, per forza di temperatura. Tra le rive del solco impresso sul nostro tronco spirituale si aprono possibilità, si originano fulminee intuizioni o potenze di un atto a venire – a venire un giorno o forse mai, magari combinandosi con altri segni, nuovi o ancora più antichi (ferite scrostate, cheloidi, cicatrici). Il siero dell’attraversamento può restare solido per anni e a un tratto, come se nulla fosse, fluire transustanziato per liberare le sue proprietà rivelatrici. Certe folgorazioni sono incidenti del futuro, sparate o ruzzolate dal luogo più ambito o temuto dell’avvenire: nell’attimo stesso in cui ci liberano dal tempo, in cui anche solo per un attimo ci strappano dalla sua morsa, esse gettano mediante il prisma del presente una luce rischiarante, se non ribaltante, sul passato, una luce coraggiosa, arrischiatasi sin nella fessura segreta di una paura o un desiderio, un dolore necessario o una gioia inammissibile.

 

[…]

 

SEI ESTRATTI

 

Othello (Welles, 1952) / Scena iniziale

Antonella Anedda, watcher

 

La prima folgorazione è nera. La camera inquadra una tenebra. Un varco e la testa di Othello sembra cadere su di noi, possiamo quasi toccarla. Se la testa fosse decapitata potremmo raccoglierla sulle ginocchia. Una sciabolata di luce: vediamo meglio la fronte bombata, le rughe. Entriamo nella sequenza come in una tac, entriamo nella pancia del film. O forse usciamo. La morte di Othello è partorita da regista e spettatore uniti. Vediamo le palpebre gonfie. Abbiamo buona memoria. Davanti a un cadavere, ci lasciano il tempo di contemplare la morte, ci lasciano soli con lei. Adesso spostano il corpo. Una mano fa leva, il nostro sguardo è parallelo al corteo. Le tenebre si diradano. I vapori sono grigi. La nebbia è bianca. Guardiamo ancora e i cortei sono due. Due file convergenti e un primo piano del profilo di Desdemona sotto il velo, con le guance di marmo, come l’Isabella d’Aragona scolpita da Francesco Laurana. I vivi che guardano camminano vicino ai due cortei, ai quali, alla fine della sequenza, se ne aggiunge, ma come in sogno, un terzo. Le lance dei soldati fanno l’orizzonte obliquo. Un accenno di Paolo Uccello, una geometria di Piero della Francesca nelle Storie della vera Croce: la macchina e l’argano che issa la gabbia di Jago. Il Cristo morto di Andrea Mantegna sarebbe invece il riferimento fin troppo ovvio della sequenza iniziale se non fosse per il ribaltamento e lo scatto, il muoversi di qualcosa che sappiamo immobile.

[…]

 

Una moglie (Cassavetes, 1974) / Scena del pranzo

Sonia Bergamasco, attrice / musicista

 

La scena è questa. Mabel e Nick faccia a faccia, un lungo tavolo mensa che li divide. E il loro spiegarsi, per gesti e poche parole (di lei) e sguardi e poche parole (di lui). Incorniciati nel vano di una porta che li trattiene e li avvelena. Si amano, completamente, in maniera balorda e indiscutibile. Si appartengono dalla distanza siderale di mondi. Quello di Mabel, sofferente e pieno di desiderio, e quello di Nick, distratto e ottuso. Si parlano in codice, e Mabel fa teatro ancora una volta per lui, che ora, finalmente lontano dagli sguardi degli “altri”, si sente libero di amare la diversità della sua donna, e di comprenderla senza riserve.

Non parlo di altre scene, quelle che preludono all’internamento di Mabel – la sera di follia in cui tutto deflagra – o il ritorno a casa dall’ospedale, e il ritrovarsi della famiglia nel quotidiano del dolore. Non parlo di queste scene, perché la temperatura emotiva che alimentano è difficilmente sostenibile, per me. E poi quella scena di un dopopranzo qualunque – piatti sporchi e parannanza a fiori – ogni cosa già dice della casa e delle persone che la vivono.

Mabel-Gena curerà personalmente trucco e capelli, sul set, e farà proprie le dinamiche profonde che la partecipazione al film della madre e della suocera in qualità di attrici farà scattare. È sexy e sciatta, la figura di Mabel. Vestitini corti, che aderiscono alla bellezza nervosa di una donna qualunque. Scarpe basse e capelli spesso spettinati, per scelta.

 

[…]

 

Incubi notturni (Cavalcanti, 1945) / Episodio del ventriloquo

Sandro Bernardi, storico del cinema

 

Sarà capitato anche a voi, mentre state parlando con qualcuno, di sentire all’improvviso la vostra stessa voce che dice una cosa “sbagliata”. La state dicendo e in quello stesso momento avete la sensazione precisa che quella cosa non era da dire.

A me capita spesso. Gli inglesi hanno per questo un’espressione molto significativa: «I gave you a piece of my mind… sorry». Mi dispiace. Ti ho detto quello che pensavo, senza volerlo. Subito dopo si prova vergogna, incertezza o anche paura, ci si sente nudi. Figuratevi quando mi capitò di vedere sullo schermo tutto questo, e ancora di più. Ben altro che un tradizionale film dell’orrore. Si trattava piuttosto di quell’orrore che nasce da dentro, la paura dell’altro che è in noi e che certe volte distrattamente ci capita di vedere quando passiamo davanti a una vetrina («Chi è quel tizio?» oppure: «Ma sono davvero così brutto, così storto?»).

Mi accadde quando ero studente a Londra, quindi parecchi anni fa. Avevo letto che in un cinema di periferia, non molto lontano da dove si trovava ancora il famoso studio della Ealing – la casa di produzione inglese di film dell’orrore, appunto – era in programma Incubi notturni, una specie di film culto, che in Italia era impossibile trovare, famoso perché vantava la partecipazione di vari autori. Ciascuno aveva curato un episodio del film, che era una raccolta di piccole storie strane.

Ci andai con una ragazza italiana, l’avevo incontrata là, nel college dove molti altri, come me, facevano uno stage di perfezionamento per la lingua; lei mi piaceva moltissimo, pensa e ripensa, alla fine avevo trovato l’occasione per invitarla a vedere una cosa interessante. Tutto andava per il meglio. Era una ragazza molto dolce e molto carina, bionda e chiara di viso, veniva da una paesino veneto. Cominciammo a camminare, parlando e ridendo dei nostri compagni, come si fa spesso, e nella metropolitana ormai le sfioravo la mano.

 

[…]

 

La storia del generale Custer (Walsh, 1941) /

Scena: dialogo tra Custer e Sharp prima della battaglia

Enrico Ghezzi, riautore di cinema (e altro)

 

Folgoriamo,  fratelli!

Amo anche i film che mi dimenticano mi dimentono mi smentiscono confermando nel godimentire il mio posto riservato nel viaggio di solo ritorno che mi è concesso duramente o teneramente imposto.

Ora, riaffacciandomi al set mentale in cui fui folgorato (è infatti una radura brulla bruciata, bruciante ancora in roveti ardenti, quella che mi accoglie nel suo limite, vicinissima a me, al mio percepire in essa tutta la distanza che me ne separa), ogni volta trovo in quella devastazione un complicarsi, e nel mio sguardo (nella pellicola inc(r)ollata precaria sfaldata che l’occhio pare secernere in operazione che non mi appartiene, accorgendosi infine della scongiunzione e separazione che esso è) tracce di un gioco incompiuto, per quanto divertito e goduto, quindi già avvenuto in modi del tutto incomprensibili, se si pensa che quanto avviene in quel set ne proviene alla velocità della luce, limite imbarazzante e rudimentale perfino nel tentare o credere di dar conto della poltrona profonda in cui siamo avvolti, sul margine in cui l’immagine e il mondo decelerano emergendo e rendendosi visibili.

Quando mi accorsi di neve e ghiaccio in una delle visioni/versioni de L’Atalante via via ufficialmente ritrovate, notai di colpo il modo non raccontabile e sintetizzabile in cui il rabdomante palombaro jeanvigo manda il suo doppio jeandastè in missione impossibile nel profondo della trasparenza amorosa o infine solo sotto la chiglia della sua ‘nave’, e lui risalendo sul barcone dalla parte opposta per un istante non sa dove si trova e dove guardare, vede il vecchio marinaio e il ragazzo che guardano qualcosa in acqua, si avvicina a sua volta, era lui che quei due si aspettavano di veder riemergere dalla parte sbagliata, e lui stesso in quel punto si aspetta e cerca senza sapersi atteso.

 

[…]

 

Fuga di mezzanotte (Parker, 1978) / Scena iniziale

Rocco Siffredi, vero

 

La mia folgorazione cinematografica è la scena iniziale di Fuga di mezzanotte. Il film parte con la tragedia. Siamo all’aeroporto di Istanbul e c’è un ragazzo americano con due chili d’hashish addosso che sta per imbarcarsi per gli Stati Uniti. Ha ancora la chance di lasciare la droga nel bagno, decide però di rischiare. È con la sua donna, che non sa nulla. È nervoso, ha paura. Supera il controllo passaporti, ma alla perquisizione sotto l’aereo lo beccano. E lì inizia l’allucinante calvario della galera turca. È questa la scena che mi ritorna sempre in mente quando assisto al modo in cui alcune persone, in pochi secondi, buttano nel cesso un’intera esistenza. Ma non solo. È riaffiorata e continua a riaffiorare, in modo più intimo, in alcuni momenti cruciali dei miei 25 anni di carriera di porno-attore. Quel rischio, quel non tirarsi indietro l’ho sperimentato sulla mia pelle. Penso a quando sono arrivato in Kenya per fare Tarzan e all’aeroporto ho letto il cartello: Very illegal: drug and pornography. La prigione africana non deve essere meglio di quella turca, eppure ho scelto di girare. Un’altra volta è stato a Budapest, alle prese con una scena in bagno con due ragazze, col marmo, l’olio, i tacchi a spillo e tutto il resto. Era una scena energica: inizio a incularne una e, mentre tiro a me l’altra, una ragazza di diciannove anni, questa mi scivola e io la vedo andare giù, quasi a ralenti, e sbattere la testa su un gradino, sull’unico angolo di marmo della stanza; sento il knock secco, vedo gli occhi bianchi, rigirati, persi, e mi dico: ci siamo, tra un po’ vengono a prendermi e la vita è andata.

[…]

 

Profondo rosso (Argento, 1975) / Doppia scena del corridoio

Wu Ming 1, cantastorie / enigmista

 

Pensiamo all'espressione «coda dell'occhio». Una coda sta sul retro di un corpo. Per la precisione, sopra le terga, è il prolungamento della colonna vertebrale, oltre il coccige. La coda dell'occhio, metafora per l'estremo margine del campo visivo, è dunque associata al «retro» di un corpo, è l'ultima parte dell'occhio a cogliere, a percepire qualcosa di uno spazio che si sta lasciando. Ciò che appare nella coda dell'occhio è ormai lontano dal focus del nostro sguardo, è in-distinto, non si staglia su nulla, è già tornato parte dello sfondo, di ciò che lasciamo in fondo. Va anche fatto notare che il nostro sguardo ha due code: una a destra e una a sinistra. Bruce Lee si allenava a distinguere e riconoscere anche ciò che appariva ai margini del campo visivo, senza girarsi per mettere a fuoco, ma quello di Bruce Lee è un caso eccezionale: quasi tutti noi, dopo aver percepito qualcosa con una coda d'occhio, per distinguerlo e riconoscerlo dobbiamo girarci, ruotare la testa, puntare lo sguardo. Noi andiamo avanti, passiamo nello spazio, l'aggettivo per descriverci è «corrivi», siamo sempre più corrivi, procediamo di corsa con un focus sempre più ristretto (si potrebbe parlare di paraocchi: cos'è un paraocchi se non un dispositivo che lega le code agli occhi?) senza preoccuparci di quel che c'è intorno, di quel che ci passa accanto, di quel che lasciamo dietro di noi. Il nostro sguardo è monotonamente frontale, non ci fermiamo a distinguere e pensare, e così rispondiamo agli stimoli subito e nel modo più banale. Un artista batte in ferro una scritta che richiama quella all'ingresso di Auschwitz e la colloca sul parapetto di un ponte romano: WORK WILL MAKE YOU FREE.

[…]

  LUMIER

 

 
 

- i n f o @ r i f r a z i o n i . n e t -