INTRO DOSSIER
FOLGORAZIONI
Jonny
Costantino
Che la tua felicità sia divisa in folgorazioni…
Marcel Schwob, Il
libro di Monelle
La
folgorazione è un incidente. Ci coglie alla sprovvista tramortendoci. Non è
colpa della nostra strategia difensiva: pur avendo una guardia impeccabile
(pugni alti, busto eretto, piedi piantati), può succedere che un colpo arrivi
da dove non ce l’aspettiamo, e si va al tappeto – capita ai migliori
boxeur. La folgorazione è un incidente della mente, percorsa da un’improvvisa
insospettata abbagliante evidenza. Nonché un incidente dell’anima:
elettrizzata, illuminata. «Talvolta, tuttavia, guardandoci attorno ci
accorgiamo che non tutti hanno un’anima. Non è un accessorio di serie al regalo
della vita». A parlare così è il regista russo Aleksandr Sokurov. Egli sa, e
noi lo sappiamo, che un’anima va guadagnata, che un’anima può conflagrare, non
superare la prova del fuoco che la fa venire alla luce, come sa che, una volta
nata, un’anima può morire bambina, o adulta schiattare per assideramento, che
sono innumerevoli i modi in cui si lesiona, si spezza, si disintegra. Finché
ancora possiamo, finché non è persa, finché non siamo perduti, le va dato il
colpo di grazia per rifarsela più dura ed elettrica, a prova di offesa ma non
di folgore.
È lo
shock dell’universale sfavillante nel particolare a folgorarci in un’opera. Un elettroshock che, mentre ci sospende nella
vertigine, ci fa sentire il (funambolico stare sul) filo della nostra unicità.
La folgorazione è l’esperienza del fuori che ci piomba dentro e attecchisce
tramite ustione, dopo aver incenerito la membrana divisoria, mentre la figura
dell’altro balugina in una sintesi inedita. Ed è nel didentro – nei
connotati dell’altro, in forma di rappresentazione – che possiamo
scorgere con maggiore consapevolezza il nostro volto, quello attuale, quello
potenziale. La nostra faccia – nel corso del tempo, nel farsi anima del
tempo – si scolpisce di conseguenza. Anche una faccia, non meno di
un’anima, bisogna conquistarsela, esposta com’è allo squasso di dinamiche
vitali, alla torsione di impulsi contrastanti, dinamiche e impulsi continui che
– affacciandosi a fior di nervi – ci rimodellano senza tregua i lineamenti, prima che subentri il rigor del capolinea.
Una vera
folgorazione è un prodigio ustorio, ma pure incisorio. Un segno ce lo lascia
sempre, per forza di temperatura. Tra le rive del solco impresso sul nostro tronco
spirituale si aprono possibilità, si originano fulminee intuizioni o potenze di
un atto a venire – a venire un giorno o forse mai, magari combinandosi
con altri segni, nuovi o ancora più antichi (ferite scrostate, cheloidi,
cicatrici). Il siero dell’attraversamento può restare solido per anni e a un
tratto, come se nulla fosse, fluire transustanziato per liberare le sue
proprietà rivelatrici. Certe folgorazioni sono incidenti del futuro, sparate o
ruzzolate dal luogo più ambito o temuto dell’avvenire: nell’attimo stesso in
cui ci liberano dal tempo, in cui anche solo per un attimo ci strappano dalla
sua morsa, esse gettano mediante il prisma del presente una luce rischiarante,
se non ribaltante, sul passato, una luce coraggiosa, arrischiatasi sin nella
fessura segreta di una paura o un desiderio, un dolore necessario o una gioia
inammissibile.
[…]
SEI ESTRATTI
Othello (Welles, 1952) / Scena iniziale
Antonella Anedda, watcher
La prima folgorazione è nera. La camera
inquadra una tenebra. Un varco e la testa di Othello sembra cadere su di noi,
possiamo quasi toccarla. Se la testa fosse decapitata potremmo raccoglierla
sulle ginocchia. Una sciabolata di luce: vediamo meglio la fronte bombata, le
rughe. Entriamo nella sequenza come in una tac, entriamo nella pancia del film.
O forse usciamo. La morte di Othello è partorita da regista e spettatore uniti.
Vediamo le palpebre gonfie. Abbiamo buona memoria. Davanti a un cadavere, ci lasciano
il tempo di contemplare la morte, ci lasciano soli con lei. Adesso spostano il
corpo. Una mano fa leva, il nostro sguardo è parallelo al corteo. Le tenebre si
diradano. I vapori sono grigi. La nebbia è bianca. Guardiamo ancora e i cortei
sono due. Due file convergenti e un primo piano del profilo di Desdemona sotto
il velo, con le guance di marmo, come l’Isabella d’Aragona scolpita da
Francesco Laurana. I vivi che guardano camminano vicino ai due cortei, ai
quali, alla fine della sequenza, se ne aggiunge, ma come in sogno, un terzo. Le
lance dei soldati fanno l’orizzonte obliquo. Un accenno di Paolo Uccello, una
geometria di Piero della Francesca nelle Storie
della vera Croce: la macchina e l’argano che issa la gabbia di Jago. Il Cristo morto di Andrea Mantegna
sarebbe invece il riferimento fin troppo ovvio della sequenza iniziale se non
fosse per il ribaltamento e lo scatto, il muoversi di qualcosa che sappiamo
immobile.
[…]
Una moglie (Cassavetes, 1974) / Scena del pranzo
Sonia
Bergamasco, attrice / musicista
La scena
è questa. Mabel e Nick faccia a faccia, un lungo tavolo mensa che li divide. E
il loro spiegarsi, per gesti e poche parole (di lei) e sguardi e poche parole
(di lui). Incorniciati nel vano di una porta che li trattiene e li avvelena. Si
amano, completamente, in maniera balorda e indiscutibile. Si appartengono dalla
distanza siderale di mondi. Quello di Mabel, sofferente e pieno di desiderio, e
quello di Nick, distratto e ottuso. Si parlano in codice, e Mabel fa teatro
ancora una volta per lui, che ora, finalmente lontano dagli sguardi degli
“altri”, si sente libero di amare la diversità della sua donna, e di
comprenderla senza riserve.
Non
parlo di altre scene, quelle che preludono all’internamento di Mabel – la
sera di follia in cui tutto deflagra – o il ritorno a casa dall’ospedale,
e il ritrovarsi della famiglia nel quotidiano del dolore. Non parlo di queste
scene, perché la temperatura emotiva che alimentano è difficilmente
sostenibile, per me. E poi quella scena di un dopopranzo qualunque –
piatti sporchi e parannanza a fiori – ogni cosa già dice della casa e
delle persone che la vivono.
Mabel-Gena
curerà personalmente trucco e capelli, sul set, e farà proprie le dinamiche
profonde che la partecipazione al film della madre e della suocera in qualità
di attrici farà scattare. È sexy e sciatta, la figura di Mabel. Vestitini
corti, che aderiscono alla bellezza nervosa di una donna qualunque. Scarpe
basse e capelli spesso spettinati, per scelta.
[…]
Incubi notturni (Cavalcanti, 1945) / Episodio del
ventriloquo
Sandro
Bernardi, storico del cinema
Sarà
capitato anche a voi, mentre state parlando con qualcuno, di sentire
all’improvviso la vostra stessa voce che dice una cosa “sbagliata”. La state
dicendo e in quello stesso momento avete la sensazione precisa che quella cosa
non era da dire.
A me
capita spesso. Gli inglesi hanno per questo un’espressione molto significativa:
«I gave you a piece of my mind… sorry». Mi dispiace. Ti ho detto quello che
pensavo, senza volerlo. Subito dopo si prova vergogna, incertezza o anche
paura, ci si sente nudi. Figuratevi quando mi capitò di vedere sullo schermo tutto
questo, e ancora di più. Ben altro che un tradizionale film dell’orrore. Si
trattava piuttosto di quell’orrore che nasce da dentro, la paura dell’altro che
è in noi e che certe volte distrattamente ci capita di vedere quando passiamo
davanti a una vetrina («Chi è quel tizio?» oppure: «Ma sono davvero così
brutto, così storto?»).
Mi
accadde quando ero studente a Londra, quindi parecchi anni fa. Avevo letto che
in un cinema di periferia, non molto lontano da dove si trovava ancora il
famoso studio della Ealing – la casa di produzione inglese di film
dell’orrore, appunto – era in programma Incubi notturni, una specie di film culto, che in Italia era impossibile
trovare, famoso perché vantava la partecipazione di vari autori. Ciascuno aveva
curato un episodio del film, che era una raccolta di piccole storie strane.
Ci andai
con una ragazza italiana, l’avevo incontrata là, nel college dove molti altri,
come me, facevano uno stage di perfezionamento per la lingua; lei mi piaceva
moltissimo, pensa e ripensa, alla fine avevo trovato l’occasione per invitarla
a vedere una cosa interessante. Tutto andava per il meglio. Era una ragazza
molto dolce e molto carina, bionda e chiara di viso, veniva da una paesino
veneto. Cominciammo a camminare, parlando e ridendo dei nostri compagni, come
si fa spesso, e nella metropolitana ormai le sfioravo la mano.
[…]
La storia
del generale Custer (Walsh, 1941) /
Scena: dialogo tra Custer e Sharp prima della
battaglia
Enrico
Ghezzi, riautore di cinema (e altro)
Folgoriamo, fratelli!
Amo
anche i film che mi dimenticano mi dimentono mi smentiscono confermando nel
godimentire il mio posto riservato nel viaggio di solo ritorno che mi è
concesso duramente o teneramente imposto.
Ora,
riaffacciandomi al set mentale in cui fui folgorato (è infatti una radura
brulla bruciata, bruciante ancora in roveti ardenti, quella che mi accoglie nel
suo limite, vicinissima a me, al mio percepire in essa tutta la distanza che me
ne separa), ogni volta trovo in quella devastazione un complicarsi, e nel mio
sguardo (nella pellicola inc(r)ollata precaria sfaldata che l’occhio pare
secernere in operazione che non mi appartiene, accorgendosi infine della
scongiunzione e separazione che esso è) tracce di un gioco incompiuto, per
quanto divertito e goduto, quindi già avvenuto in modi del tutto
incomprensibili, se si pensa che quanto avviene in quel set ne proviene alla
velocità della luce, limite imbarazzante e rudimentale perfino nel tentare o
credere di dar conto della poltrona profonda in cui siamo avvolti, sul margine
in cui l’immagine e il mondo decelerano emergendo e rendendosi visibili.
Quando
mi accorsi di neve e ghiaccio in una delle visioni/versioni de L’Atalante via via ufficialmente
ritrovate, notai di colpo il modo non raccontabile e sintetizzabile in cui il
rabdomante palombaro jeanvigo manda il suo doppio jeandastè in missione
impossibile nel profondo della trasparenza amorosa o infine solo sotto la
chiglia della sua ‘nave’, e lui risalendo sul barcone dalla parte opposta per
un istante non sa dove si trova e dove guardare, vede il vecchio marinaio e il
ragazzo che guardano qualcosa in acqua, si avvicina a sua volta, era lui che
quei due si aspettavano di veder riemergere dalla parte sbagliata, e lui stesso
in quel punto si aspetta e cerca senza sapersi atteso.
[…]
Fuga di mezzanotte (Parker, 1978) / Scena
iniziale
Rocco
Siffredi, vero
La mia folgorazione cinematografica è la scena iniziale di Fuga di mezzanotte. Il film parte con la
tragedia. Siamo all’aeroporto di Istanbul e c’è un ragazzo americano con due
chili d’hashish addosso che sta per imbarcarsi per gli Stati Uniti. Ha ancora la
chance di lasciare la droga nel bagno, decide però di rischiare. È con la sua
donna, che non sa nulla. È nervoso, ha paura. Supera il controllo passaporti,
ma alla perquisizione sotto l’aereo lo beccano. E lì inizia l’allucinante
calvario della galera turca. È questa la scena che mi ritorna sempre in mente
quando assisto al modo in cui alcune persone, in pochi secondi, buttano nel
cesso un’intera esistenza. Ma non solo. È riaffiorata e continua a riaffiorare,
in modo più intimo, in alcuni momenti cruciali dei miei 25 anni di carriera di
porno-attore. Quel rischio, quel non
tirarsi indietro l’ho sperimentato sulla mia pelle. Penso a quando sono
arrivato in Kenya per fare Tarzan e
all’aeroporto ho letto il cartello: Very
illegal: drug and pornography. La prigione africana non deve essere meglio di
quella turca, eppure ho scelto di girare. Un’altra volta è stato a Budapest,
alle prese con una scena in bagno con due ragazze, col marmo, l’olio, i tacchi
a spillo e tutto il resto. Era una scena energica: inizio a incularne una e,
mentre tiro a me l’altra, una ragazza di diciannove anni, questa mi scivola e
io la vedo andare giù, quasi a ralenti,
e sbattere la testa su un gradino, sull’unico angolo di marmo della stanza;
sento il knock secco, vedo gli occhi
bianchi, rigirati, persi, e mi dico: ci siamo, tra un po’ vengono a prendermi e
la vita è andata.
[…]
Profondo rosso (Argento, 1975) / Doppia scena del corridoio
Wu Ming 1,
cantastorie / enigmista
Pensiamo all'espressione «coda dell'occhio». Una coda sta sul retro di
un corpo. Per la precisione, sopra le terga, è il prolungamento della colonna
vertebrale, oltre il coccige. La coda dell'occhio, metafora per l'estremo
margine del campo visivo, è dunque associata al «retro» di un corpo, è l'ultima
parte dell'occhio a cogliere, a percepire qualcosa di uno spazio che si sta
lasciando. Ciò che appare nella coda dell'occhio è ormai lontano dal focus del
nostro sguardo, è in-distinto, non si staglia su nulla, è già tornato parte
dello sfondo, di ciò che lasciamo in fondo. Va anche fatto notare che il nostro
sguardo ha due code: una a destra e una a sinistra. Bruce Lee si allenava a
distinguere e riconoscere anche ciò che appariva ai margini del campo visivo,
senza girarsi per mettere a fuoco, ma quello di Bruce Lee è un caso
eccezionale: quasi tutti noi, dopo aver percepito qualcosa con una coda d'occhio,
per distinguerlo e riconoscerlo dobbiamo girarci, ruotare la testa, puntare lo
sguardo. Noi andiamo avanti, passiamo nello spazio, l'aggettivo per descriverci
è «corrivi», siamo sempre più corrivi, procediamo di corsa con un focus sempre
più ristretto (si potrebbe parlare di paraocchi: cos'è un paraocchi se non un
dispositivo che lega le code agli occhi?) senza preoccuparci di quel che c'è
intorno, di quel che ci passa accanto, di quel che lasciamo dietro di noi. Il
nostro sguardo è monotonamente frontale, non ci fermiamo a distinguere e
pensare, e così rispondiamo agli stimoli subito e nel modo più banale. Un
artista batte in ferro una scritta che richiama quella all'ingresso di
Auschwitz e la colloca sul parapetto di un ponte romano: WORK WILL MAKE YOU FREE.
[…]
