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PRESENZA E ABBANDONO: L’ARTE DI ESISTERE AL CINEMA

 

di MAURIZIO INCHINGOLI

 

 

Per farla finita con la vita

Tre modi di abbandonare le scene

 

 

Gonzo: The Life and Work of Dr. Hunter Thompson (2008, di Alex Gibney)

Joy Division (2007, di Grant Gee)

Scott Walker: 30 Century Man (2006, di Stephen Kijak)

 

BIOGRAFILM FESTIVAL 2008

International Celebration of Lives

 

 

Introdotto dalle parole di Giulia D'Agnolo Vallan, in Gonzo: The Life and Work of Dr. Hunter Thompson ( 2008 ) di Alex Gibney – già autore del film sullo scandalo finanziario della multinazionale americana Enron titolato appunto Enron: the Smartest Guys in the Room (2005) – veniamo catapultati nella vita a dir poco avventurosa dell'inventore del cosiddetto gonzo journalism, una sorta di temerario reportage dal di dentro dei fenomeni che il nostro amava esplorare. Thompson si buttava in-consciamente a capofitto nei fatti di cronaca che animavano la ribollente cultura statunitense, in particolare quella a cavallo degli anni Sessanta-Settanta. Il torrenziale film di Gibney sembra rifarsi alla frase che chiude un pezzo fondamentale dei Jefferson Airplane, quel White Rabbit che chiosava con feed your head, cibate le vostre menti: in quello specifico caso l'allusione era alle droghe allucinogene che tempestavano all'epoca, di cui Thompson era cultore e fruitore. Come un viaggio nella mente lucidamente stravolta del giornalista americano, questo documentario ci accompagna famelicamente attraverso le innumerevoli vicende storicizzate ed epocali vissute; come l'avventura con gli Hell's Angels, drammaticamente descritta nel romanzo omonimo, passando con qualche livido tra le braccia e le motociclette dei famosi e violenti biker americani, con annessa polemica in diretta televisiva (in un pericoloso confronto con il leader di questo movimento). Il nostro passa indenne anche da una fallimentare ma rispettosa campagna elettorale per diventare sceriffo di Aspen, cittadina del Colorado, e crede veramente in questa missione impossibile. Cosi come quando viaggia con un carico di droghe assortite in direzione Las Vegas col suo amico e avvocato messicano Oscar Zeta Acosta, per sondare per conto del magazine Rolling Stone la realtà luccicante e perversa dei casinò. Inutile dire che ci vengono in mente, cosi come a Gibney che ce le mostra, le colorate e psichedeliche immagini di Paura e Delirio a Las Vegas (Fear and Loathing in Las Vegas, 1998) di Terry Gilliam. Non a caso la voce narrante del film è di un appassionato lettore di Thompson come Johnny Depp, che legge passi del libro con la partecipazione tipica di un amico e fan sfegatato dello scrittore nativo di Louisville.

Notevole e decisivo è quindi il found-footage di questo film presentato lo scorso gennaio al Sundance Film Festival, aiutato dalle immagini in super-8 fornite dalla famiglia, in cui assistiamo anche a divertenti siparietti del nostro intento a sparare ad oggetti inanimati nel giardino vicino casa; notoria era infatti la sua passione per le armi, come per l'alcol.

In circa due ore, questo documentario fiume su una delle figure più carismatiche e profondamente americane, ci introduce in un mondo che sembra quasi non esistere più. Il lavoro aggressivo di Thompson, come quello ad esempio di Lester Bangs in ambito più strettamente musicale, è stato col tempo soppiantato da una forma di reportage che i media americani hanno di molto edulcorato e per cui hanno coniato il termine embedded. Thompson non amava questa forma di cronaca spicciola e risoluta, volutamente controllata e manipolata dai governi di turno, e faceva capire di non gradire gente che si vendeva per poco. Non a caso negli ultimi anni si era ritirato dalle scene prima di decidersi a farla finita con un colpo di pistola (sic!), pur di non assistere al definitivo declino della cultura statunitense, culminata con la rielezione di George W. Bush. Ci credeva fino in fondo e pensava che le cose potessero migliorare, invece all'improvviso il buio, e la decisione di chiudere quasi cioranianamente con la vita, pur di non assistere all'ennesimo scempio culturale che di li a poco si sarebbe compiuto. Un grande e terminale esempio di coerenza applicata alla propria esistenza. Una fine con onore, non c'è che dire.

Alex Gibney rovista e cerca di metter ordine nella vita di Hunter Thompson attraverso le interviste al suo amico illustratore Ralph Steadman, alle due ex mogli ed al figlio, con una chirurgica e precisa messinscena da navigato documentarista. Il montaggio è la principale virtù e la molla che fa da collante a queste immagini dopate e vitali, che si alternano ad uno score di tutto rispetto con pezzi di Janis Joplin, Rolling Stones e Jefferson Airplane, tra il meglio che la cultura americana, e non solo, dell'epoca abbia prodotto. Una alchimia perfetta e ad alto tasso alcolico che al nostro sarebbe piaciuta non poco. Un modo divertente e beffardo di celebrare la morte di un personaggio sui generis, che si faceva gioco dei mezzi di comunicazione, già in un'epoca in cui si cominciavano a teorizzare pratiche di controllo sulle notizie, dalle quali Thompson si teneva a debita distanza. Un apologo sull'alcol e le droghe come antidoto per superare lo squallido e sordido mondo del giornalismo. Un caleidoscopio dal quale si esce felici e storditi, ma pur sempre soddisfatti. Notevole e finto mocku-film di una paradossale traslucenza, dalla quale si può vedere tutto in maniera definitiva e finale.

 

L'altro film che ha attirato la attenzione in particolare degli appassionati di musica di derivazione punk new-wave é stato Joy Division, il rock-documentary in concorso di Grant Gee dedicato alla celebre band (2007). Nell'omonimo lavoro del regista di Brighton, l'approccio è dapprima volutamente sociologico, con le immagini della città di Manchester che si sovrappongono alla nascita della band capitanata da Ian Curtis, singer e personalità complessa che funge da fulcro per la storia. Come nei film di Ozu, ci immergiamo lentamente nelle immagini analizzando la città ed il contesto socio-culturale. Ma il modello adottato è anche quello dei documentari di Frederick Wiseman, antropologo del montaggio e dei fotogrammi, fermamente distante ed attaccato allo stesso tempo ai suoi personaggi.

In una realtà industriale sull'orlo di una crisi inarrestabile e quasi senza via d'uscita, prende forma questa band che cambierà le sorti della musica moderna e della città. Le paranoie e le paure verranno sublimate dai testi e dall'incedere epilettico e nevrotico di Curtis, che si muoveva inquieto tra i fans scatenati, e con l'aiuto di Bernard Sumner e Peter Hook, rispettivamente chitarra e basso dei Joy Division, ripercorriamo la storia di questa band a dir poco seminale. L'impostazione di Gee è lineare e corretta, il film alterna immagini di live ed interviste ai comprimari ed alle persone che avevano rapporti con un musicista geniale e tormentato. La scoperta della malattia, la relazione conflittuale con la prima moglie e poi la conoscenza della nuova compagna belga. Il lavoro sull'artwork delle bellissime copertine effettuato da un'artista visionario come Peter Saville. Le interviste con un mostro sacro della cultura musicale anglosassone come il dj John Peel. Un biopic nero e lucidissimo, architettato da un maestro del videoclip come Grant Gee, che è anche un appassionato di musica (ha girato tra gli altri videoclip per Radiohead, Blur, Oasis). Chi meglio di lui poteva viaggiare attraverso le crisi e le glorie di una band cosi fondamentale? In maniera semplice e rispettosa dei personaggi, veniamo catapultati in una realtà lontana anni luce ormai, come quella di fine '70, con un inevitabile finale tragico che viene solo evocato. Ci commuoviamo anche noi davanti alla fatale tragedia che si compirà di lì a poco. Curtis infatti si suiciderà in casa ingerendo una grossa quantità di barbiturici e con sul piatto del giradischi la copia di The Idiot di Iggy Pop. Terminale poi la foto che li immortala per alcuni poster promozionali su un ponte di Manchester, scattata da Anton Corbijn, anch'egli autore di un docu-film sulla band titolato Closer (2007).

Un omaggio dovuto e prezioso di cui ogni appassionato di musica non dovrebbe fare a meno. Un viaggio nella mente di un talento che era consapevole della sua posizione scomoda, e che faceva per questo parlare solo i suoi compagni di viaggio. Un’unione perfetta di suono applicato alle immagini livide e nere, una crasi drammatica e definitiva. Dopo solo un lungo silenzio… e di corsa ad ascoltare il testamento musicale lasciato dal nostro. Unknown Pleasures dalla terra d'Albione.

 

Il nostro personale viaggio termina con una sorpresa che invero non ci aspettavamo di incontrare. Fa capolino nel cartellone del festival Scott Walker: 30 Century Man (2006) del regista americano Stephen Kijak.

Come un diamante incastonato in un anello luccicante, la sorprendente pellicola dedicata al musicista nativo dell'Ohio, ormai trapiantato in Gran Bretagna, immortala la vita di Walker partendo dai fasti dei primi anni sessanta con i Walker Brothers, boy-band ante litteram per antonomasia, e si avvicina poi alla realizzazione di dischi solisti e monstre come Climate of Hunter (1984), Tilt (1995) ed il recente The Drift (2006).

Scott Walker si concede finalmente alla videocamera del filmaker americano, che ripercorre le varie fasi della sua incredibile carriera. Ricordando il quasi anacronistico (per la cultura statunitense dell'epoca) amore per i film d'autore europei, in particolare per quelli del maestro svedese Ingmar Bergman, e per gli autori della Nouvelle Vague, ma anche la rocambolesca scoperta delle canzoni di Jacques Brel, a cui dedicherà anche un suo lavoro, in cui reinterpreta le canzoni dell'autore fiammingo.

Un'ora e mezza di purezza dark e talento spaventoso tradotto in immagini mozzafiato, che testimoniano anche e soprattutto la fase di immersione totale nell'anonimato del misterioso musicista, specie dagli anni '80 in poi, per centellinare sempre di più le apparizioni pubbliche ed i propri lavori, che si fanno via via sempre più introspettivi e criptici. In una sorta di voluta decostruzione pop filtrata attraverso le istanze più avanguardistiche che il nostro potesse concepire. Con produzioni al limite del maniacale e dell'assurdo. Impressionanti a questo proposito le immagini girate negli studios londinesi per la registrazione dell'ultimo, stratosferico lavoro uscito per 4AD. Sembrano intercettate attraverso il buco della serratura, tanto discreto è il girato di Kijak. Il film è prodotto da David Bowie, che intervistato per l'occasione non nasconde una certa malcelata invidia per lo sconfinato talento di Mr. Walker. Facendo il paio con le dichiarazioni di Brian Eno, altro grande musicista-produttore che però forse non riuscirà mai a lavorare con talenti del genere, pur avendo fatto grandi cose con gente come Talking Heads e Roxi Music.

Enorme, irraggiungibile meteora che vive in disparte e lontano ere geologiche dalla musica moderna attuale. Addirittura era in grado di fare impazzire letteralmente di gioia grandi jazzisti dell'avanguardia britannica come Evan Parker. Cosa c'è da aggiungere ancora?

Dopo questa catacombale visione tutto il resto sembra superfluo, mancano le parole. Prepariamoci ad una lunga fase di gioiosa riflessione, costernati davanti a cotanto innat(o)urale genio della musica contemporanea, che è riuscito ad unire per sempre in maniera inscindibile l'avanguardia con gli stilemi più s-comodi della musica pop-ular. Un poeta delle note, un silenzioso e sornione kamikaze sempre alla ricerca di un muro invisibile da abbattere. Un mastodonte timido e umile.

Il lavoro di Kijak è per forza di cose quasi schiacciato dalla grandezza di Walker, sembra quasi che ci sia del suo solo nei bellissimi ed inquietanti titoli di testa, dove una femminile e catramosa voce narrante ci introduce nei meandri più bui e nascosti della vita del  protagonista. Un modo efficace di approcciarsi ad una materia scottante come quella creata e plasmata da Walker. Un piccolo capolavoro, una gemma nascosta.

 

Uscendo da queste sorprendenti proiezioni la prima riflessione che ci viene in mente è che come una finestra sul mondo, come una luce in fondo al tunnel, attraversando le fasi più buie dei protagonisti di queste preziose pellicole – s’intravede un barlume di inaspettata vitalità per il cinema contemporaneo di questa specifica fase storica. L'individuo è il soggetto dei migliori film che escono negli ultimi tempi al cinema. Unite ad una forma di documentario sempre più affascinante ed accattivante. L'umano (troppo umano) prima di tutto, in-sostenibile oggetto perfetto da sondare e cristallizzare. Come in una fotografia od ancora più indietro nel tempo in un dagherrotipo. Forse il cinema sta tornando alle proprie origini. O forse è come un'anziano che torna bambino e ricorda le proprie origini e la passata gioventù. Forse è la fine del cinema cosi come comunemente inteso fino ad ora, o la sua rinascita e trasfigurazione in una forma meno mediata da sceneggiature appositamente inventate. O forse la mancanza del sogno, e solo la dura realtà. Chissà, intanto godiamoci le suggestioni di questi fotogrammi di accecante bellezza visiva e soprattutto sonora. Il connubio (o delitto) perfetto...

 

 

Questa è la nostra storia...

 

 

The Last Western (2008, di Chris Deaux)

This American Gothic (2005, di Sasha Waters Freyer)

 

BIOGRAFILM OFF 2008

(Bologna, Vicolo Bolognetti)

 

 

La fretta di farsi storia. È la prima riflessione che viene in mente assistendo alla proiezione di questi due piccoli documentari che scandagliano un'America sconosciuta ma vogliosa di essere parte delle evoluzioni della società odierna, che necessariamente si basano sul concetto di riconoscimento storico per esistere ed essere considerate parte integrante della stessa. Ma sembra più una preoccupazione del regista che dei personaggi protagonisti delle pellicole, che anzi, non hanno nessuna intenzione di lasciare questa terra, pur ambendo a far parte di quella storia.

 

Con The Last Western (2008) ci addentriamo in una realtà che sa di naftalina e di museo impolverato. Buzz, il perno attorno al quale si snoda il film di Chris Deaux, è un simpatico residuato figlio di una comunità hippie che si è stabilita alcuni decenni fa nella cittadina di Pioneertown fondata da Gene Autry, attore della ultima ondata di western seriali, in pieno deserto del Mojave; un tempo location ideale per set cinematografici e serial televisivi come The Cisco Kid, non distante da Hollywood, e poi successivamente trasformatasi in luogo per dropouts ed Hell's Angels, che soprav-vivevano solo grazie ai sussidi, ed in alcuni casi allo spaccio di sostanze stupefacenti. Una comunità di bianchi e w.a.s.p. rinchiusa in se stessa, con il culto della nazione e della bandiera a stelle e strisce. Tutta presa ad inseguire i ricordi ormai perduti di un passato mitizzato, che rimane impresso solo grazie a cimeli e vecchi orpelli che arredano le loro case-magazzino.

La galleria di personaggi che anima questo documentario è quanto di più anacronistico ci possa essere sulla faccia della terra, lontana anni luce dai quartieri multirazziali che animano città-metropoli come New York o Chicago; qui il tempo sembra essersi fermato, pare di essere catapultati negli anni '50, quando una nazione rurale ma già comunque proiettata nel futuro dominio mondiale, formava persone per bene, ma anche freaks pronti a sovvertire le regole di convivenza civile attraverso un uso spropositato di alcol e droghe, per poi rifugiarsi (scacciata quasi) nel ventre molle di questa enorme landa che abbonda in spazi ed in recinti fisici e mentali, dove però tutti hanno la possibilità di crearsi il proprio mondo e la personale comunità insieme ai propri simili. Cristallizzare la giovinezza e gli ideali, mettere da parte le sindromi e la solitudine alimentando passioni come la musica ed il cinema dei vecchi tempi andati. Abitando ai margini, in posti che sono deserto e sabbia, lontano dalla città corrotta e perduta. Ogni personaggio racconta la sua storia ed il suo declino, compiaciuto ma anche disilluso, ed in fondo stanco. L'età media d'altronde è altissima, ed i processi della globalizzazione, questa sconosciuta, sembrano aver intaccato solo in minima parte le loro convinzioni. Come un vecchio vinile gracchiante, con la puntina che ne traccia il solco, ad inseguire come in un eterno loop quella vitalità ormai persa. Buzz infatti morirà circa una settimana dopo aver finito di girare il documentario. E con lui se ne andrà un pezzettino di quella eterogenea e variopinta società che si rinchiude in se stessa in una paradossale ed impossibile eternità. Se ne andrà con lui anche la sua amata musica rithm'n'blues, e rimarranno soltanto i ricordi della anziana madre. Insieme a quelli degli abitanti superstiti di Pioneertown. Come in una vecchia cartolina ingiallita dallo scorrere inesorabile del tempo, questa pellicola immortala definitivamente un piccolo tassello di storia che andava assolutamente fermato e lasciato ai posteri.

“The Last Western is the story of the old west town Hollywood built and then forgot": questa è la triste frase che campeggia nel sito internet del film, quasi a ribadire una fatale e logica conseguenza dell'industria del cinema, che usa posti e persone come fossero manichini. Peccato però che alcuni individui rimangono stregati dai fumi della settima arte, e stoici, fanno letteralmente la polvere. La grande dis-illusione che manca a degli onesti abitanti di questa terra.

 

Come quelli della cittadina di Eldon nello Iowa, 998 anime quasi tutte ossessionate dal famoso dipinto di Grant Wood, This American Gothic, che viene preso a modello di una vita frugale e semplice, a corredo dei sani principi e valori della società americana. Ammetto di non amare troppo il recupero delle radici, specie se attuato da anziani che si rifiutano di confrontarsi con il mondo contemporaneo, ma forse non posso capire certi ideali. Meglio ri-attualizzare invece alcuni concetti alla luce dei cambiamenti che subiamo ogni giorno, piuttosto che salire su un immaginario piedistallo e ricordare come si usava una volta la vanga per dissodare il terreno, ed altre amenità simili. Ci sono i trattori moderni per questo! Ma tant'è, la regista si mantiene a debita distanza da tale antica usanza, e quasi ad esorcizzare il tutto piazza, tra un frame e l'altro, pezzi di rock moderno di gruppi come Mogwai, Built to Spill e The Beta Band. Il mondo va avanti, la cultura si è impossessata di questa comunque efficace icona e l'ha trasfigurata in varie forme e modi espressivi. Non a caso viene citata la scena dal film The Rocky Horror Picture Show (1975) diretto da Jim Sharman, che parodizza in maniera ineccepibile la mise'n'scene di quel quadro. Cosi come fanno copertine di magazines e dischi usciti negli anni a venire. Ma lasciamo una speranza di vita a questa comunità di poche anime, che forse ha solo fiutato un discreto affare per il turismo: come biasimarli. Confesso che ad un certo punto anche io volevo vestirmi come il patriarca del dipinto, accostarmi ad una donzella, e tenere in mano un forcone a ricordo delle mie origini contadine, sic! Ho fatto tanto per ripudiarle, ma forse sto solo delirando troppo! È che le sagre di paese non le amo particolarmente, ma amo tantissimo il cibo e la parte più materiale della cosa. Riempire lo stomaco, bere, trangugiare divertiti la nostra storia, facendoci una grossa risata. Senza segno della croce però, e poi ritornare seriamente al proprio lavoro quotidiano. Mantenere le distanze e come dice John Giorno in una sua splendida poesia: just say no to family values!

Sasha Waters Freyer si affida a storici di fama e giornalisti professionisti per fissare il momento da cui nasce tutto, ed in effetti sembra non credere poi molto a certe teorie. Il film è di fatto un buon reportage su una stramba ed obesa comunità del Midwest, intenta a reificare e lucrare, a fin di bene s'intende, su un'opera d'arte e sulle conseguenze che questa ha lasciato nella cultura statunitense.

La fretta di farsi storia dicevamo all'inizio. Per dominare il mondo bisogna aver vissuto, costruito, distrutto, invaso ed inculcato la propria cultura allo straniero di turno. La caduta dell'impero americano verrebbe quasi da dire; invece amiamo pensare che gli Stati Uniti sono una fucina di talenti. In fondo è ancora un paese giovane ed in grado di cambiare le sorti del mondo: nel bene o nel male, questo sta ad ognuno di noi deciderlo.

I miei nonni usavano la zappa per lavorare in campagna, mangiavano cose buone e conducevano una vita sana, io però non ho nessuna intenzione di farlo alla stessa maniera. Sono una persona moderna, e mi piace rispondere cosi (passatemi la digressione) alla domanda che faceva la bimba al papà nell'illuminante e spaventoso film Dall'oggi al domani (Von heute auf morgen, 1997) di Jean Marie Straub e Daniele Huillet. L'evoluzione nell'uomo è inevitabile, che la si voglia o meno, e se si crede di essere superiori bisogna superare e combattere i propri demoni, sennò si fa la fine speculare di quelle persone che tanto facilmente la società americana denigra e ghettizza, rinchiudendola per esempio a Guantanamo. E lasciamo in pace Grant Wood ed i soggetti del suo dipinto, meritano rispetto e riposo, hanno lavorato tutto il giorno nei campi...

 

 
 

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