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(ALMOST) FAMOUS

 

Uno sguardo sul Biografilm Festival 2010

 

di MAURIZIO INCHINGOLI

 

 

My Son, My Son. What Have Ye Done (2009, di Werner Herzog)

Guest of Cindy Sherman (2008, Tom Donahue e Paul H-O)

Who’s Harry Nilsson (2010, di John Scheinfeld)

The Legendary Bing Crosby (2010, di John Scheinfeld)

Anvil! The Story of Anvil (2008, di Sacha Gervasi)

 

 

Storie di fantasmi, di gente che fatica ad ingranare, e di miti che sopravvivono a loro stessi pur diventando chiaramente obsoleti. Alternate alla paurosa inversione di marcia di Werner Herzog che, come un kamikaze, si annulla in favore di un’operazione cinematografica anestetizzante e allo stesso tempo capace di celare definitivamente la propria identità autorale.

Un effetto straniante aleggia in questa affollata edizione del Biografilm, che si conferma un coacervo di idee sul mito e sulla persona in una perenne ed affannosa rincorsa. Tremendamente ossessiva, come deve sembrare ai più questo eterno inseguire la fama, la salita verso la popolarità, il più delle volte solo lambita. Oppure talmente vissuta sulla pelle da risultare quasi una vera e propria spada di Damocle sulle proprie teste.

Il mito, la profonda divisione che c’è tra noi spettatori e la persona adorata, è il leit motiv di un sentire cinematografico che negli ultimi anni caratterizza tutto il linguaggio delle immagini, da qualsiasi parte del mondo esso provenga. Come se le profezie di Andy Warhol si fossero “drammaticamente” avverate sotto i nostri occhi pensanti.

 

L’uomo perciò nel costante centro dell’attenzione, dimentico, forse, di tutto quel cinema che era luogo e poesia, proscenio di un’idea di mondo che manca da troppo tempo sul grande schermo. Registriamo quindi la necessità di una centralità tutta post-umana, che a volte prende il sopravvento e ci pone ‘ebeti’ in una serie di riflessioni che non ci aspettavamo quasi di formulare.

Come spiegare, altrimenti, tutta la grigia e triste parabola di My Son, my Son. What have ye done (2009) di Werner Herzog, eterno viaggiatore ed esploratore di cinema possibili, anche quando questi si ribellano a loro stessi, perché forse un tantino logori dal troppo errare sul globo terrestre? In un coté che sa di digitalizzante prova di forza da dopolavoro, dobbiamo ammettere che tutta la foga attoriale del gruppo di performer risulta come imbolsita, quasi come se avessero girato sotto ipnosi, in una riproposizione “too fast” e poco ragionata di azioni cinematografiche già ampiamente sperimentate dal regista bavarese. Poco dunque rimane di un film che poteva essere non solo uno strambo ed alieno divertissement – e di fatto lo è comunque –, ma poteva provare a sfondare quella soglia della rappresentazione castrante di un rapporto di coppia totale e distruttivo. Cercando di rielaborare uno schema, quello del falso noir eccentrico-chandleriano con elemento esotico – vedi alla voce “pink flamingos” –, che sembra non attecchire più sulle nostre sinapsi. Un lavoro, questo, che si poggia sulle fragili basi di un’atmosfera livida e troppo canonizzata, che gioca troppo poco sull’attesa, e che non vede la vera e distruttiva deflagrazione auspicata. Aggiungiamoci poi la produzione lynchana che pone un veto troppo mellifluo al tutto, ed il gioco al ribasso è compiuto. Un peccato però non aver potuto apprezzare fino in fondo la naiveté dei personaggi, il loro sbandamento presunto, e l’aver preso sottogamba talentuosi attori/corpi come Chloë Sevigny e Willem Dafoe, rari esempi di facce scavate e cicatrizzate da enormi occhiaie livide che dovrebbero star lì a testimoniare tutta la disperante solitudine di un mondo ricco e noioso, come quello della periferia losangelina. Un’occasione mancata per Herzog, o forse solo un compitino svolto per far piacere all’amico David Lynch, in previsione di future e più stimolanti collaborazioni. Attendiamo fiduciosi…

 

Esempio, invece, di una strada percorsa al limite della real-tv è Guest of Cindy Sherman (2008) di Tom Donahue, positivo e curioso video-excursus operato da una figura alquanto eccentrica ed “anonima” – quella di Paul Hasegawa-Overacker – che s’imbatte nella vita della famosa artista, newyorchese d’adozione, coraggiosa nell’intrecciare una relazione con questo simpatico ed eccentrico “wannabe artist”, che ce la mette tutta per provare a diventare celebre. Che usa con coraggio un modello di tv-fai-da-te come fosse una stramba e pauperistica candid camera da piccolo programma di quartiere, scaricando tutta la sua frustrazione e la vorace curiosità nell’intervistare, tra gli altri, artisti come Eric Bogosian, Robert Longo e John Waters per la sua trasmissione “camp”, primigenio esempio di art-tv sul campo. Siamo alla metà degli ’80, numerose sono le occasioni per incontrare artisti come Andy Warhol prima e Jean Michel Basquiat successivamente, che sono già largamente riconosciuti come grandi cerimonieri e talenti di un mercato dell’arte che si allarga sempre di più. Tra questi, spicca anche la figura enorme ed ingombrante di Julian Schnabel che, con fare snob ed irriguardoso nei confronti del povero malcapitato Paul H-O, gli si scaglia contro trattandolo a pesci in faccia. Il nostro “si vendica” quasi con l’inaspettata relazione che instaura col mito vivente della metamorfosi fotografica. Cindy Sherman lo accoglie nella sua casa e, quasi come fosse un animaletto divertente, lo porta in giro per mostre, dove sembra quasi che a lei sia indifferente, tanto è presa dal suo lavoro. Ma forse il senso di questo documentario sta tutto nella paranoide ed anche un po’ patetica figura di Paul H-O che ce la mette tutta, che sembra quasi sorpreso dal clamore che si crea attorno alla figura di artista della sua compagna, che ne soffre tutte le conseguenze: in primis quella di non essere minimamente considerato dall’entourage della grande artista-performer statunitense. La storia finisce male, ovviamente, ed il nostro sembra uscirne con le ossa rotte. Come un moscerino che va a sbattere la minuscola testolina contro un elefante, contro una corazza di metallo troppo dura per lui.

Corazza che sembra mancare ad un piccolo genio della pop music dei tardi ’60, quell’Harry Nilsson che sarà uno dei massimi esempi di artista frustrato e genialoide al quale è capitato di toccare il cielo con un dito, ma che ha decisamente perso il treno della gloria sulla terra. Evidentemente non c’è posto per tutti nello stipato pantheon della musica moderna, nonostante lo spropositato talento musicale del nostro. Autore di una manciata di pezzi straordinari, tra tutti la stupenda e saltellante  Coconut, o la triste storia autobiografica raccontata in 1941, e la languida Without You, cantata in tutte le salse dai più vari artisti – tra questi anche la “burrosa” Mariah Carey –, ed esecutore della strafamosa Everybody’s Talkin’, pezzo per il quale diviene celebre a livello planetario per la presenza dello stesso nello score di Un uomo da marciapiede (Midnight Cowboy, 1969) di John Schlesinger, ma in verità composto da un vero genio del cantautorato yankee meno conosciuto su larga scala come Fred Neil. Nilsson vive perciò questa straniante dicotomia col successo, che gli sorride, ma che fugge via subito, e nel frattempo viene apprezzato anche da John Lennon, con il quale stringe un’amicizia durevole sublimata nel famoso “Lost Weekend”, lungo periodo alcolico dove i nostri, in combutta con il folle Keith Moon degli Who e Ringo Starr, girano mezzo mondo suonando e componendo canzoni che rimarranno negli annali della musica popular. Ma questo non basterà a farlo scivolare in quel buco nero e distruttivo che lo perseguiterà e lo condizionerà per tutto il resto della sua vita. Scheinfeld raccoglie documenti d’epoca e preziose testimonianze che ci portano a conoscenza di un autore singolare, abile cesellatore di melodie e di testi che, purtroppo, rimarrà di fatto quasi sconosciuto ai più. In una versione mozzata del film, che ancora deve essere completato, e che promette davvero molto bene. In definitiva una gustosa anteprima. Di contro, con il lavoro dedicato ad un mito tutto americano, The Legendary Bing Crosby (2010), registriamo una doverosa e spettacolare testimonianza incentrata sul campione di vendita assoluto del mercato discografico statunitense di tutta la storia moderna. Una figura, questa, che ci porta indietro nel tempo, in quell’atmosfera apparentemente gioiosa e pacificata che era la tv d’oltreoceano del dopoguerra, che sfruttava e dava lustro ad un crooner sopraffino capace di accontentare tutti, per quel suo modo di interpretare tutti i canoni musicali con una nonchalance senza pari. Bing Crosby come massima espressione di un mercato tenuto a bada da astute case discografiche che, scoperta la gallina dalle uova d’oro, se ne impossessano per guadagnare cifre astronomiche e per egemonizzare il mercato, anche mondiale. Un fatto per tutti: la ‘sua’ White Christmas, scritta in realtà da Irving Berlin, è stata un campione di vendita senza precedenti. Ma il singer di Tacoma, Washington, era altresì capace di duettare con i migliori interpreti della musica d’oltreoceano, vedi Frank Sinatra, Dean Martin, Louis Armstrong, José Feliciano e, quasi a sorpresa, David Bowie, in uno stranito e divertente call&response che avevamo dimenticato. Il lavoro di Scheinfeld s’immette in quel solco dove stanno le cose migliori del documentario fatto di raccolta di dati, di found-footage mai fine a se stesso, e risulta perciò il massimo esempio di cinema adatto a questo tipo di manifestazioni “biografiche”. Sembra essere nato per far questo, e ce lo dimostra con una semplicità ed un’efficacia filmica sempre discreta ed attaccata al ricordo e al sogno.

Quel sogno che diventa dura realtà dalla quale fanno fatica a fuggire gli Anvil, campioni di heavy metal agli albori degli ’80, che continuano imperterriti a suonare, nonostante le cocenti delusioni prese in giro per il mondo, tra queste anche le innumerevoli difficoltà per raccattare un contratto discografico decente, e le alterne fortune, che ne fanno i campioni assoluti di un modo di intendere il mondo della musica metal che sembrava finito nel dimenticatoio. Steve “Lips” Kudlow, leader, chitarrista e compositore della band canadese, si danna l’anima per continuare il suo percorso di musicista, insieme allo storico batterista e amico dalle profonde radici yiddish Robb Reiner. E il film, Anvil! The Story of Anvil (2008), architettato da Sacha Gervasi – fan sfegatato della band e collaboratore di Mtv e VH1 –, sembra essere un omaggio più di un appassionato che di un regista. Elemento, questo, che serve a rimarcare quella necessaria e paradossale distanza descrittiva che un regista qualsiasi avrebbe solo sfiorato. A Gervasi non importa nulla di ciò che pensano i detrattori della band, figlia di un modo di intendere la musica ormai desueto e fuori dal tempo, e cerca in tutti i modi di far venire a galla tutta la passione e la fatica di un manipolo di uomini che continuano a vivere il loro personale sogno, anche a costo di risultare palesemente “patetici”; o anche a costo di lavorare per un servizio di catering per tutta la vita. Gervasi l’insegue dovunque, si commuove dietro la macchina da presa come fosse un elemento aggiunto della band, e ci lascia una testimonianza nient’affatto scontata, finalmente viva e fuori dalle consolidate regole del biopic già ampiamente sviscerato da altri e più prestigiosi registi. In una forma intima di inseguimento che non è solo un film, ma è qualcosa di più: un valido reportage di un gruppo di folli e simpatici musicisti alle prese con la gloria mancata. Un lavoro, questo, che serve a modello per chi ancora crede in un sogno, quello svanito della gloria terrena, avallato dalle testimonianze di gente molto più ricca e celebre come Tom Araya degli Slayer e Slash dei Guns N’Roses. Una stramba “almost famous band” che ha lambito la gloria, ma alla quale non è stato permesso di rimanere nell’olimpo dei migliori. Per un fatto preciso, aggiungiamo noi: le loro songs non erano, a dir la verità, eccezionali, e il loro stile non ha oltrepassato con coraggio il tempo, è rimasto troppo attaccato alle mode del momento, ed ha subito troppo velocemente il fenomeno dell’usura, tanto che solo un popolo attento e senza “vergogna” come quello giapponese poteva ancora crederci; prova n’è il fatto che in quelle latitudini non hanno nessuna remora a prendere per buono qualsiasi fenomeno pop-rock vagamente “occidentale” che invece da noi nasce e muore nel giro di pochi anni. Ma, si sa, gli abitanti del Sol Levante sono il massimo esempio di fans che vivono le proprie passioni senza troppe regole e non si lasciano troppo influenzare dalle mode, questo ovviamente nel bene e nel male.

(Almost) famous dicevamo in apertura: un’ambivalente contraddizione in termini che prende coscienza del fatto che per rimanere a galla ci vogliono sacrificio e passione, ma anche l’appoggio di strutture mercantili che decidono di cambiarti la vita, insieme a fortuite traiettorie nascoste nella vita quotidiana. C’è chi ci riesce, e c’è invece chi non sopporta certe dinamiche e soccombe a tutto ciò. Lambisce soltanto una minima parte di ciò che potrebbe gestire e ne rimane schiacciato. Come una legge del contrappasso che presenta sempre, e beffarda, il conto. E noi, con fatalismo di ritorno, accettiamo o no questa scommessa con la ‘vita-morte’.

 

 

 

 

 
 

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