LA PAROLA ALL’IMMAGINE
di CHIARA TOGNOLOTTI
Jacques Aumont, A cosa
pensano i film (1996, Ets, Pisa 2007)
Questa
recensione è, in buona parte, il racconto di uno scontro. Qualche tempo fa ho
ricevuto l’incarico, da parte di Augusto Sainati - che dirige la collana
Vertigo per l’editore ETS - di tradurre dal francese un testo di Jacques
Aumont, A quoi pensent les films. Ho accettato con (incauto?) entusiasmo, sia perché non
capita spesso di poter lavorare col francese, lingua affascinante e troppo
spesso eclissata da un inglese onnivoro, sia perché avevo studiato a lungo
altri testi di Aumont (Du visage au cinéma su tutti, un saggio illuminante sui significati
del primo piano)e m’intrigava la possibilità di entrare dentro la macchina del
testo, affrontarlo da vicino per comprenderne a fondo la portata. Incautamente,
appunto: perché il corpo a corpo con la scrittura dello studioso francese si è
rivelato molto più arduo del previsto.
Ma
andiamo con ordine. Il libro è costruito secondo un’alternanza di parti dedicate
a riflessioni estetiche in termini generali e di capitoli dedicati alla lettura
di un singolo film. Se la parte teorica risulta avvincente perché vera e
propria sfida intellettuale, la parte che incanta quasi a pelle è quella delle
analisi dei film, perché distesa, quasi abbandonata al piacere fisico della
visione. Tra di esse ricorderei soprattutto l’analisi di La naissance de
l’amour di
Philippe Garrel (1993) e – inevitabilmente, data la mia passione
personale per il cinema muto francese e in particolare per quest’autore –
di La caduta della casa Usher di Jean Epstein (1928).
Il
primo scontro col testo è dato dal carattere problematico delle argomentazioni
dell’autore. Aumont non procede con ordine, non inanella osservazioni e
deduzioni secondo una ferrea coerenza. Piuttosto, muove per suggerimenti, per
slanci di pensiero che si accumulano gli uni sugli altri. È uno stile che alla
linearità rigida della dimostrazione preferisce l’andamento curvilineo e aperto
della riflessione libera, non strutturata, decontratta, in una scrittura che
non procede linearmente ma si muove in cerchi concentrici, che ora si
avvicinano all’oggetto del discorso, ora se ne allontanano, esplorandone le eco
possibili. Evidentemente, non è facile rendere nella traduzione un modo di
scrivere così leggero e insieme intenso, ripieno di significati, perché quasi
ogni parola (perlomeno, ogni parola chiave) può essere intesa in più modi, ed è
l’autore stesso ad attribuirle più significati contemporaneamente. Ad esempio,
uno degli scontri col testo è nato a partire dal titolo. Cosa vuol dire “a cosa
pensano i film”? Che significa, in questo caso, “pensiero”? Quali nuovi
significati attribuire a questo termine?
Per
rispondere a questa domanda bisogna fare un passo indietro. Di fondo, Aumont
effettua un notevole spostamento di prospettiva nell’analisi del film. A
partire dalla tradizione semiotica, l’analista nel suo lavoro persegue una
padronanza totale del testo, in un lavoro che tendenzialmente è esaustivo,
ovvero vorrebbe esaurire tutti i significati possibili del suo oggetto-film. A
questo scopo, i momenti fondanti dell’analisi sono l’assegnazione (in quale
categoria già nota possiamo classificarlo?) e l’interpretazione (che
significato hanno le immagini e la storia del film?). Al contrario, Aumont
afferma di voler privilegiare altri due atti: la descrizione e la spiegazione.
Il fatto è che, secondo l’autore, troppo spesso l’analisi del film parte, per
così dire, da fuori: l’analista possiede già una sua teoria e cerca di
applicarla al film, vedendo se esso corrisponde o meno alle norme cardine di
quella stessa teoria. In questo modo, il film è un esempio di un problema già
risolto; una nuova manifestazione di uno schema già noto. Al contrario, Aumont
suggerisce di considerare il film come problema da risolvere: come entità unica
e singolare da studiare per capire quali sono le domande che esso pone. Il
percorso va non dalla teoria astratta alla sua manifestazione concreta (il
film), ma da una manifestazione concreta a un problema (un enigma, diceva
Ejzenštejn, riferimento costante dell’autore), che è quello a cui le
immagini sono risposta e che è compito dell’analista individuare.
A questo
scopo, l’analisi del film deve partire dalle immagini: «sono le immagini a
dover parlare, non testi che facciano loro da tutori o da chaperon» (p. 35). Ne deriva il rifiuto
deciso del metodo iconologico che, secondo l’autore, finisce per ricondurre
esclusivamente il senso dell’opera a un repertorio esterno ad essa: «si tratta
in ogni caso di ritrovare qualcosa che esiste prima dell’immagine, al di fuori
e indipendentemente da essa, e alla quale l’immagine stessa deve conformarsi»
(p.42). Da qui, dunque, l’importanza della descrizione: l’immagine deve essere
osservata per come appare, senza sovrapporvi subito un significato
predeterminato. L’immagine «è capace di dire qualcosa di per se stessa» (ivi):
si deve cercare di guardare ciò che si vede e non ciò che si sa.
Ed è
proprio la dimensione figurativa a liberare senso: è così che l’immagine pensa.
Il senso viene da dentro all’immagine e non da fuori, ovvero dalla dimensione
linguistica, retorica o più in generale teorica. L’immagine allora «pensa per
figure», pensa in quanto è una struttura astratta composta da relazioni tra
oggetti figurativi e oggetti culturali.
Prima
soluzione, dunque: è vero, i film pensano. Ma subito emerge un altro problema,
un altro scontro. Se le immagini del film pensano, come cogliere questo
pensiero? Quali procedure seguire, cioè, nell’analisi? Abbiamo già visto che il
primo passo è descrivere le sue immagini, restando rigorosamente all’interno di
esse, senza inventare significati tesi a soddisfare una qualche altra
struttura. Ma come condurre questa descrizione?
Nell’osservare
il film, risponde Aumont, si privilegeranno alcune caratteristiche particolari.
Si sceglieranno, all’interno delle immagini, quelle componenti che in qualche
modo sono portatrici di una differenza: tutto ciò che non è immediatamente e
banalmente funzionale al racconto; ciò che non è ovvio; ciò che è dinamico, che
appare d’un tratto, che si trasforma. In una parola, tutto ciò che non è
sistematizzabile, che non è riconducibile a una regola. Qui è evidente il
richiamo – reso del resto esplicito dallo stesso autore – all’idea
di senso ottuso dell’immagine esplorato da Roland Barthes. Il senso ottuso, è,
come’è noto, qualcosa che l’immagine possiede e che non è immediatamente
interpretabile, schematizzabile, leggibile. Elemento «evidente, erratico e
ostinato», il senso ottuso è qualcosa che si percepisce con forza, ma che non
si riesce a ingabbiare in una griglia di significati prestabiliti; è qualcosa
che sta al di fuori delle categorie estetiche usuali, perché «appartiene alla
razza dei giochi di parole, delle buffonerie, delle spese inutili» e «sta dalla
parte del carnevale» (cfr. R. Barthes, Il terzo senso, in Id., Sul cinema, Genova, Il melangolo, 1994, pp.
115-134).
È in
questo di più dell’immagine, che non è dicibile tramite il linguaggio se non in
minima parte, che si coglie il vero pensiero del film. In altre parole, la sua
forza di significazione emerge di più in quei momenti che sono «la rovina del
sistema», cioè in quegli elementi che escono dalla semplice funzionalità alla
storia narrata ma anche dall’appartenenza a categorie preconcette (per esempio,
le caratteristiche tipiche di un genere). È quando l’immagine si fa originale,
quando esce dai binari del banale e dell’atteso che si libera la sua forza di
pensiero: che essa produce il suo proprio significato. Il pensiero del film sta
nelle sue eccezioni.
Riassumendo:
nell’ottica di Aumont l’indagine sul film deve rimanere ancorata alle immagini,
privilegiandone la descrizione; e in ciò fare deve cercare tutto ciò che
contraddice il sistema, perché è in esso che si cela la forza di pensiero delle
immagini. Ne derivano due conseguenze: il predominio del singolare sul
regolare, dell’eccezione rispetto alla norma; e la non conclusività
dell’analisi, dato che per definizione nell’immagine rimane sempre qualcosa che
dev’essere ancora descritto, qualcosa che resta osservabile.
Aumont
sottolinea con forza il contrasto tra singolare e regolare. Da un lato stanno
le peculiarità del singolo film – che poi sono quelle che attirano
l’analisi e la orientano, proprio in senso magnetico, quasi costringendo, con
la loro forza, l’analista a occuparsi di loro; dall’altro, il film come oggetto
culturale, quindi appartenente a una norma (sia essa la dimensione produttiva,
di genere, linguistica, stilistica eccetera). Sono due dimensioni che devono
coesistere, anche per non finire nell’impasse che riduce ogni analisi a una
descrizione auto-giustificantesi. Si tratta allora di partire dal singolo film
e comprenderlo, riportarlo a una regolarità senza perderne le caratteristiche
uniche, quelle che non si spiegano e che, come abbiamo visto, ne costituiscono
il pensiero.
Evidentemente
i problemi posti dal lavoro di Aumont sono di grande complessità teorica. In
una riconsiderazione del problema della figuratività – delle sue
caratteristiche, ma anche della sua stessa possibilità di esistenza, della
figurabilità, come sottolinea bene Sainati nella postfazione – l’autore
si allontana da una concezione puramente mimetica dell’immagine (descritta
dalla ben nota metafora dello specchio). Piuttosto, l’immagine è vista –
richiamando anche la riflessione di Francastel sul pensiero plastico –
come strumento di produzione di pensiero proprio grazie alle sue qualità
sensoriali: le figure (del film) danno forma a processi mentali, mettono in
atto un’operazione di simbolizzazione e produzione di senso. È un quadro
concettuale complesso che mobilita una serie di riferimenti estremamente ampia;
più che citare studi strettamente legati al cinema, Aumont preferisce citare
filosofi (da Aristotele a Kant a Leibniz), storici dell’arte (Panofsky,
Francastel) o teorici del cinema, preferibilmente eretici (Lyotard e Pasolini
su tutti).
E in
tutto questo, la povera traduttrice che fine ha fatto? Non è stato facile
riannodare e tenere insieme i fili di una trattazione tanto complessa, che
oltretutto procede, come si diceva, per accenni, digressioni e suggestioni più
che con regolarità dimostrativa. La sfida è stata rendere questa struttura
errante della scrittura, che di primo acchito può risultare ardua ma che, un
volta compresa, ne costituisce il fascino più grande. Non spetta a me dire se,
alla fine dei conti, il risultato sia all’altezza; certamente la fatica, anche
fisica, della traduzione è stata ripagata dalla soddisfazione di aver
ricostruito una trama di pensiero, quella di Jacques Aumont, profonda, incisiva
e di grande portata teorica.