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IL GIARDINO DEL CINEMA

 

a cura di FRANCESCO CATTANEO

 

 

Laura Falqui, Raffaele Milani, L'atelier naturale. Cinema e giardini (Cadmo, Fiesole/FI 2008)

 

 

Recensione

 

 

L’atelier naturale. Cinema e giardini rientra nel novero di quegli studi raffinatamente stravaganti ed eccentrici che riescono a far risaltare una sfaccettatura inedita o trascurata dell’oggetto della loro attenzione. Qui il cinema viene attraversato camminando lungo una di quelle vie laterali poco battute ma non per questo avare di angoli incantati, di scorci seducenti, di vedute tanto più trascinanti quanto più inaspettate. Eccentricità e stravaganza vanno dunque intese in senso letterale ed etimologico: ec-centricità, muoversi ai margini del centro; extra-vaganza, aggirarsi fuori. Per certi versi è come avventurarsi nelle zone bianche delle antiche mappe: terra incognita.

L’inusitata via d’accesso al cinema individuata da Raffaele Milani e Laura Falqui è quella che passa attraverso la questione del ruolo del giardino nella rappresentazione cinematografica. Nella pregnante ed efficace premessa metodologica al volume, gli autori fanno notare che una cosa è il paesaggio («Il paesaggio al cinema è una messe infinita di immagini, di vedute; racconta, un paesaggio, infinite storie, sogni mutevoli; il paesaggio suggerisce l’infinito» [p. 14]) e altra cosa è il giardino. Il giardino è un luogo costitutivamente circoscritto: «La m.d.p. si muove nel giardino che è un mondo recintato e quindi intensifica e raddoppia, in un certo senso, la caratteristica del film che è di per sé un luogo spazio-temporale conchiuso; come un giardino, il film ha un inizio, un centro, dei percorsi e una fine» (p. 15). Curiosa scambievolezza: come se il giardino catturato dal cinema a sua volta catturasse il cinema. L’importanza storica e culturale del giardino (convenientemente distinto, oltre che dal paesaggio, anche dall’ambiente, dallo spazio e dal territorio) viene colta nel fatto che esso è caratterizzato da «una complessa trama di forme legata alla cultura, alla tradizione e al mito. Sia come giardino reale che come giardino rappresentato nelle arti, mira a valorizzare le forme nelle quali si esprime la natura in quanto tale. In questo percorso la sua varia bellezza viene letta nell’ambito appunto di un’arte quale risultato dell’immaginare, del sentire e del fare, alla stessa stregua del disegno, della pittura, dell’architettura» (p. 11). Il giardino è luogo strutturalmente sospeso tra reale e immaginario; è inoltre opera d’arte realizzata con il concorso della natura, dunque opera d’arte vivente, imprevedibile, che intreccia sia la progettualità e l’intenzionalità umane che l’evoluzione organica e vitale della flora, soggetta a mutamenti, a cambiamenti stagionali, a variazioni quotidiane di luci e tonalità atmosferiche; infine, è un laboratorio in cui vengono fatti convergere i saperi e le pratiche dell’uomo nella loro molteplicità (un po' – si sarebbe tentati di dire – come accade nel cinema, crocevia delle arti e delle tecniche). Il tratto unificante dei giardini viene identificato nel loro essere «specchio della natura» e «riflesso di Paradiso» (p. 16) [1] .

Considerare i film a partire dal ruolo in essi assegnato al giardino e dal modo in cui il giardino viene messo in scena significa riguardare e ripensare i film stessi a partire da una prospettiva che può svelarne pieghe riposte e lati evanescenti. «Guardare un film attraverso il suo giardino – spiegano eloquentemente gli autori – vuol dire spostare in modo significativo il punto d'osservazione; vuol dire, prima di tutto, considerare l'insieme delle componenti visive e narrative tenendo conto di elementi considerati non essenziali come cespugli, aiuole, fiori, viali, potature, scorci, pergolati e così via. In special modo, ci si distacca dalla materia narrativa che viene vista da angolature eccentriche, persino “segrete”, a volte. Insomma può avvenire che si segua una conversazione come se si fosse dentro un cespuglio o dentro un fiore i cui petali sono rivolti altrove. Da questo luogo secondario si va incontro a rivelazioni anche sorprendenti, a delizie o inquietudini insospettate; emergono dettagli trascurati» (p. 14).

È chiaro che ogni giardino di volta in volta rappresentato su grande schermo ha già una sua specifica fisionomia estetica, storica, culturale. Il film, tuttavia, compie un'operazione di secondo grado, in quanto riconfigura, riplasma e reinventa incessantemente, secondo le sue particolari coordinate linguistiche ed espressive, il profilmico. Il giardino, in quanto parte del profilmico, non fa eccezione: anch'esso viene inderogabilmente sottoposto a questa rielaborazione, che si fa tanto più accorta e raffinata quanto più è consapevole il regista.

Bisogna considerare, per cominciare, che la «visione cinematografica è intangibile, non parla all'olfatto, non si può gustare, ma – come un giardino composto o un dipinto barocco sui cinque sensi – attraverso la vista suggerisce all'immaginazione l'intera esperienza percettiva» (p. 16). La prima modalità di trasformazione del giardino attiene alla specificità del linguaggio cinematografico stesso, caratterizzato da immagini in movimento accompagnate da suoni. Al di là delle possibilità sinestesiche proprie di ogni linguaggio (e quindi anche del cinema), val la pena ricordare i tentativi storici di allestire spettacoli cinematografici non solo tridimensionali, ma anche in grado, ad esempio, di stimolare l'apparato olfattivo dello “spettatore”, o meglio fruitore. Tali tentativi, intesi ad ampliare la gamma sensoriale interessata dal cinema, potrebbero forse corrispondere meglio all'esperienza polisensoriale del giardino, ma ciò non sposta di molto la questione. Infatti si verificherebbe comunque una traduzione dell'esperienza fisica “originaria” del giardino. E sarebbe addirittura opportuno chiedersi: qual è questa esperienza originaria? Esiste qualcosa del genere? C'è forse un'esperienza grezza legata ai dati reali della cosa? Che dire dei diversi occhi, delle diverse sensibilità, delle diverse culture che entrano in dialogo con il giardino? Non è il giardino un dialogo? E non è forse per questo che può essere tradotto in quanto giardino in quell'altro dialogo che è il cinema?

Per inquadrare nella sua piena complessità e pluridimensionalità la traduzione cinematografica, Milani e Falqui fanno uso di una preziosa nozione: quella di «arte del disegno» (p. 12). Cosa si intende con ciò? L'arte del disegno consiste nella stratificazione e nel “campo di forze” che producono un tratto e il coordinarsi dei tratti. Tale stratificazione comprende l'intenzionalità e la progettualità del regista, il modo in cui essa preserva e rinnova una tradizione, una cultura, una storia; comprende l'interazione tra elementi preesistenti (come possono essere i paesaggi e i giardini, ma anche le architetture, gli scenari urbani e via dicendo) e lo slancio creativo con cui essi vengono riproposti; comprende il gioco di segni, tra canone e infrazione, che tenta di ritrarre un mondo reale o ideale, combinando la produttività umana con la ricerca della verità. Il disegno «mira a conoscere» (p. 12) e costituisce una cifra progettuale. Il concetto così delineato di disegno si applica a ogni manifestazione artistica, ma si attaglia tanto più mirabilmente a una forma espressiva costitutivamente ibrida come il cinema, che è punto di confluenza di arti, tecniche, mestieri, ecc [2] .

Si può così dire che ogni film, in base al suo schema ideativo di fondo, ridisegna di volta in volta il giardino cui rivolge il suo sguardo. Per cui il giardino al cinema è intrinsecamente un «giardino metaforico» (p. 13), investito di volta in volta di una nuova «identità affettiva» (ibidem).

Come organizzare nel discorso analitico di uno studio una materia vasta e sfuggente come le raffigurazioni cinematografiche dei giardini? Milani e Falqui pongono un fondamentale e doveroso spartiacque: vengono fatti rientrare nella trattazione solo quei film in cui al giardino è assegnato un ruolo narrativamente ed espressivamente significativo. Insomma, vengono esclusi quei film in cui il giardino è solo un fondale come un altro. A partire da tale criterio di scelta, gli autori, anziché pregiudicare il percorso con ingombranti schematizzazioni o teorizzazioni preliminari, seguono un approccio fenomenologico capace di far emergere, nella gran messe di film considerati, affinità, continuità, ricorrenze, nuclei di senso, impreziosendo la citazione di ciascun film con annotazioni sovente illuminanti e originali, capaci, anche attraverso il loro spessore letterario, di rievocare vividamente situazioni e scene. Nasce così una sorta di tipologia del giardino cinematografico, illustrata per exempla, che si pone esplicitamente come una prima ricognizione di un'inesplorata ed elusiva zona di confine.

 

 

Conversazione

 

 

Francesco Cattaneo: Il tema del vostro libro è senza dubbio molto originale. Ci sono svariati studi sulla rappresentazione del paesaggio al cinema, ma pressoché nessuno che si occupi specificamente della questione del giardino. Da quale retroterra è maturata l’idea di trattare questo tema?

 

Raffaele Milani e Laura Falqui: L’occasione di trattare il tema dei giardini nel cinema, a noi del resto molto congeniale, ci è stata offerta da Cristina Bragaglia, curatrice della collana “il Cinema e le Idee” per Cadmo editore. L’invito ci era parso subito stimolante proprio perché univa motivi antichi e recenti delle nostre ricerche individuali: Raffaele poteva espandere le sue osservazioni, concentrate sul giardino in relazione al paesaggio, mettendo in luce le modalità rappresentative del linguaggio cinematografico; Laura avrebbe intrecciato gli studi sulla pittura dell’Ottocento e il teatro con la passione per il cinema e il gusto della memoria visiva. Bisogna ricordare però che insieme avevamo amato, praticato, studiato, scritto sul cinema e il teatro molti anni fa. Siamo quindi stati felici di ritornare insieme su argomenti che erano stati oggetto delle nostre iniziali indagini letterarie e artistiche. Diciamo che il mondo dell’immagine, nelle sue varie declinazioni, ha sempre fatto parte del nostro lavoro.

 

F.C.: Quali sono i giardini reali e quali quelli cinematografici a cui nella vostra storia di viaggiatori e di spettatori siete rimasti più legati?

 

L.F.: Il parco de L’anno scorso a Marienbad di Alain Resnais è stato forse il primo giardino cinematografico a stimolarmi l’immaginazione; un luogo affascinante e misterioso che poteva arricchirsi di atmosfere gotiche e di sensualità rarefatte; così come le atmosfere hitchcockiane di Vertigo e Rebecca, la prima moglie con i loro giardini cupi e ordinati. Il giardino di Marienbad è poi indissolubilmente legato, nella mia memoria, alla presenza di attori elegantissimi e carismatici come la Seyrig, Albertazzi, Pitoeff; in poche parole l’attrazione è spesso andata in direzione di suggestioni visive contraddittorie: splendore di vegetazione fiorita a contatto con vicende e personaggi inafferrabili. Ma mi ha sempre molto attratto anche il fantastico, perciò i giardini dei film d’animazione o legati al teatro come lo shakespeariano Sogno di una notte d’estate allestito da Jirí Trnka con i suoi pupazzi meravigliosi. Nella realtà il giardino l’ho scoperto abbastanza di recente, grazie all’interesse di Raffaele per l’argomento. Perché la mia idea di giardino è sempre stata legata alla pittura, al gusto particolare della natura che ne hanno offerto i preraffaelliti inglesi, così vividi e frammentari, e i romantici tedeschi come Friedrich o Rünge. Quindi giardini mentali, in un certo senso, soprattutto letterari e specialmente vittoriani, primo fra tutti il giardino onirico e bizzarro di Lewis Carroll con i suoi fiori parlanti, che mi accompagna fin da quando ero bambina. Ma tra tutti i giardini reali è forse quello di Ninfa, nel Lazio, che mi sembra unire tutte le caratteristiche a me più care: mistero, silenzio, splendore e rovinismo.

 

R.M.: Sono arrivato al giardino dal paesaggio. È come se lo avessi messo a fuoco alla mia vista procedendo piano piano verso un punto all’orizzonte. Ho capito davvero le qualità estetiche del giardino dopo aver potuto ammirare le bellezze del paesaggio. Ricordo un giardino di quando ero bambino: Boboli. Non potevo allora comprendere le ragioni del suo splendore, ma mi aveva molto colpito. Con il passare degli anni e soprattutto negli ultimi, ho visto molti giardini in Italia e all’estero. Quando mi sono concentrato sull’idea di un giardino cinematografico, ho cercato di ritrovare uno sguardo unitario che potesse riassumere questi ricordi facendo risaltare i volumi e le linee. Il cinema, cui ho dedicato vari saggi più di vent’anni fa, mi sembrava unire architettura e pittura. Per questo rimasi ammirato quando vidi e rividi Barry Lyndon di Stanley Kubrick, come I misteri del giardino di Compton House o Don Giovanni di Losey. Perché in questi film il cinema riesce a catturare il gioco di linee e di volumi che il giardino, in quanto giardino, istituisce. E l’emozione è stata grande perché ho potuto catturare il genio del linguaggio cinematografico, della sua tecnica nel momento in cui si appropria di una realtà che l’uomo ha disegnato profondamente e intensamente. Quando passeggio nei giardini, mi sento sempre come dentro un disegno di regia cinematografica.

 

F.C.: Il giardino al cinema viene sovente relegato al ruolo di statico ed inerte sfondo, con un significato, dunque, assai accessorio ed esteriore. Quali sono secondo voi i registi che più sono riusciti a valorizzare in senso espressivo e narrativo i giardini che compaiono nei loro film?

 

R.M. e L.F.: È vero che il giardino è, o sembra, spesso trattato come un luogo inerte, mero contenitore di dialoghi e movimento scenico, ma, lo abbiamo scoperto scrivendo il nostro libro, è anche vero che si tratta più spesso di un’impressione che non di una realtà, nel senso che la regia affida allo spazio-giardino un’importanza, in alcuni casi, solo apparentemente secondaria. Basta infatti che lo spettatore sposti l’attenzione del suo sguardo (per esempio muovendo dai particolari del giardino verso i personaggi) per accorgersi di un preciso disegno compositivo. E ciò dipende dai registi, dalle loro scelte stilistiche, dall’apparato delle tecniche di ripresa. Particolarmente il Peter Greenaway de I misteri del giardino di Compton House e il Michelangelo Antonioni di Blow Up, che per noi sono espressione di una teoria dell’atelier naturale, vale a dire di una macchina del vedere che rappresenta un vero e proprio laboratorio a cielo aperto. E se le penetrabili distanze di tale laboratorio appaiono a prima vista tutte chiare e leggibili, in entrambi i casi gli elementi della scena, indeterminati e sfuggenti, si dimostrano ingannevoli: congegni serrati di cui occorre scoprire la chiave. Ma, ovviamente, ci sono molti altri registi che abbiamo indagato alla luce dello spazio-giardino, come per esempio Stanley Kubrick, Alain Resnais, Claude Chabrol, Jack Clayton, Agnieszka Holland, Joseph L. Mankiewicz, Woody Allen, Nikita S. Michalkov, Ingmar Bergman, Akira Kurosawa. Essi rappresentano diverse possibilità di lettura e interpretazione di una natura recintata che è allo stesso tempo immagine del mondo terreno e del paradiso.

 

F.C.: Rifrazioni” segue con passione alcuni registi contemporanei che possono essere considerati grandi cantori del paesaggio naturale, ad esempio Werner Herzog e Terrence Malick. Nel panorama cinematografico attuale, quali vi sembrano i registi più interessanti sotto il profilo della messa in scena e del racconto del paesaggio e del nostro rapporto con esso? In cosa indichereste il loro specifico contributo?

 

R.M. e L.F.: Francamente non ci sembra che il cinema degli ultimi anni dedichi particolare attenzione al tema o anche semplicemente alla natura. Si può pensare a un film come Into the Wild di Sean Penn che riafferra un sentimento panico riattingendo all’idea di un mondo incontaminato, e possiamo anche pensare all’attenzione di Woody Allen per i giardini nelle ultime opere, spesso usati in funzione di contrasto, ma si tratta di casi abbastanza sporadici; potremmo citare anche il piccolo film francese Il mio amico giardiniere di Jean Becker. Tuttavia ci sembra che l’attenzione al mero dato spettacolare soffochi l’immagine della natura. Del resto i film storici e “in costume” alterano il passato in rievocazioni manierate. Certamente Terrence Malick resta il cantore straordinario e oggi forse unico della Natura in ogni suo aspetto, sposando con stile intenso e inconfondibile le possibilità tecnologiche del mezzo a una raffinata e acuta sensibilità, all’intelligenza della visione: vero paradiso perduto, utopia infranta. E il pensiero non può che andare a un altro maestro del cinema, ad Andrej A. Tarkovskij, per il quale si potrebbe forse dire che la poetica della terra ha sempre anche sottinteso una poetica del giardino.

 

 



[1] Pierre Grimal: «Mondo chiuso, indefinitamente malleabile, il giardino dà corpo al vecchio sogno del microcosmo» (cit. a p. 17).

[2] Lo stesso, come accennato, accade nel giardino, in cui il proprietario può collaborare con un architetto, un giardiniere, un pittore, ecc.

 
 
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