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REYNOLD REYNOLDS

 

TEMPI SEVERAMENTE SORVEGLIATI

 

di TIHANA MARAVIC

 

 

Bologna, 25 ottobre 2011

 

La porta si apre lentamente. In primo piano, un giovane uomo in camicia bianca. Sulla schiena, dipinta o cucita, una striscia nera verticale. Dietro di lui un lungo corridoio. Tre porte sulla sinistra, e tre sulla destra. Appoggiato al muro, un divano di pelle marrone. Le luci sono calde e morbide. Per terra il parquet lucido. In fondo al corridoio, sopra un tavolino, una vecchia macchina da cucito, una Singer. Dietro la Singer, una tenda bianca e una finestra. Cominciano ad aprirsi le porte. Tutto si muove con estrema lentezza. Da una porta esce Tomas Sinclair. Un inglese gay. Vuole diventare scrittore. è scalzo, veste un abito grigio con la cravatta. Guarda dietro di sé, nella stanza dalla quale sta uscendo. Poi avanza. La sua ombra dietro di lui. Siamo a Berlino nel 1932. Per terra il carrello e il quieto muoversi della cinepresa. Un'equipe di giovani operatori sta girando la scena di un film. Il ragazzo che lavora alla camera ripete, con un tono monotono, e con un ritmo lento e costante: move - move - move - move. Siamo a Bologna, in un appartamento di Via Nosadella, 2. Faccio parte del pubblico che assiste alle riprese. Siamo ammassati dietro la camera, e dal vivo stiamo seguendo lo svolgersi dell’azione, e la ripresa filmica della stessa. Qualcuno sta sbirciando da una porta. Una persona in abito bianco. Gli chiedo chi sia. Mi dice di essere un vampiro. Da un’altra porta sbuca una mano. Un incubo, mi dice qualcuno. Poi tutto si concentra nell'ultima stanza a sinistra. Una camera da letto arredata con mobili degli anni trenta. Un letto in verticale. Un uomo in piedi, sotto le coperte. Specchi dappertutto. Il bacio del vampiro.

 

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Live Stop-Motion Filming di Reynold Reynolds

 

Dal 19 al 25 ottobre 2011, lo spazio per le residenze artistiche Nosadella.due, è diventato lo studio cinematografico per girare le scene surreali di un film nello stile del cinema tedesco degli anni Trenta. L'ultimo giorno di lavoro, lo studio ha per due ore aperto le proprie porte al pubblico, e la produzione del film si è trasformata, quella sera, in una performance teatrale. Si tratta di laboratorio Live stop-motion filming di Reynold Reynolds. [1] Ed è proprio il dialogo, il punto d'interesse della performance teatral-cinematografica di Reynolds (artista e filmaker americano, nato nell'Alasca Centrale, che dal 2004 vive e lavora a Berlino), il quale ha deciso di far partecipare il pubblico al proprio processo creativo, e di innalzare la creazione del film a un’opera d'arte. I set spiccatamente teatrali dei suoi film, realizzati con una quasi maniacale cura del dettaglio, si prestano in particolar modo a questo trasferimento, dal cinema come film (prodotto finito) al cinema come processo, ovvero un live act che da la possibilità allo spettatore di seguirne la realizzazione. Reynolds afferma: l’artista morto non è interessante. è più salutare per la società, e per l’artista, che il processo artistico diventi pubblico, che lo condivida con lo spettatore. Secondo il regista, se il pubblico conosce il processo artistico, diventa più simpatetico, e può capire meglio l'opera finale.

 

The Lost

 

Il laboratorio Live Stop-Motion Filming ospitato è solo una tappa di una serie di simili eventi organizzati in varie location europee (e tuttora in corso) che fanno parte del progetto The Lost, una serie di film/performance, finalizzati alla realizzazione di un unico film su cui l'Artstudio Reynolds sta lavorando da quasi due anni. The Lost, è un progetto concettuale, racconta Reynolds, che nasce dal ritrovamento di un filmato girato negli anni trenta a Berlino, mai finito a causa della censura sempre più incombente della politica tedesca di quelli anni. Artstudio Reynolds propone di finire il film. Una scatola ritrovata. Una restaurazione. In realtà, un rifacimento. The Lost è una fiction. Quando il film sarà finito, al regista piacerebbe che lo spettatore vedesse lo stesso lavoro in due modi, una volta come realtà (un film veramente girato negli anni ’30) e una volta come finzione (la ricostruzione di un film fatto alla maniera del cinema tedesco degli anni trenta). Gli piace l’idea che questo dubbio rimanga, perché sostiene: ogni versione della storia è una storia.

Un operatore mi spiega che hanno realizzato un particolare motion control system per creare l'effetto stop-motion tipico dei film d’animazione. Come per tutti i suoi film, anche questa volta si gira in 16 mm, e poi il filmato si trasferisce in video. Dentro la cinepresa hanno installato il cuore di un orologio. Il tempo è “la questione” di tutto il lavoro artistico di Reynolds, e quindi anche di quest'ultimo. Questa volta però il tema del tempo si concretizza in quello della Storia, con il focus sul movimento nazi-tedesco e le catastrofiche conseguenze della Seconda Guerra Mondiale. Reynolds racconta: preferiamo non pensarci, non vogliamo accettarlo... l'orrore della Seconda Guerra Mondiale, l'orrore che potrebbe succedere anche oggi. Con The Lost il regista vuole mettere lo spettatore in condizione di dover riflettere su ciò che è successo nella Seconda Guerra Mondiale. E su quello che succede oggi: una crisi culturale generale. Negli anni Trenta in Germania, l'arte era severamente controllata dal governo nazista. Come avvengono i processi di controllo e della censura oggi? Come difendere la libertà del processo artistico?

 

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Il corpo come macchina biologica

 

Mentre il video è una scatola chiusa, la macchina cinematografica può essere aperta, il funzionamento capito e quindi controllato, spiega il regista. Il controllo è, insieme alla questione del tempo, un altro tema chiave dell'arte di questo cineasta. Il controllo che diventa un’ossessione, e anche il metodo di lavoro, lo sguardo-bisturi di quest'artista scienziato. Prima d'intraprendere la via dell'arte, Reynolds, infatti, ottiene una laurea in Fisica presso l’Università del Colorado, studiando con Carl Wieman, vincitore nel 2001 del Premio Nobel per la fisica. Questo sguardo scientifico che crudelmente seziona è particolarmente evidente nella trilogia The Secrets Trilogy (Six Easy Pieces 2010; Secret Machine, 2009; e Secret Life, 2008). In Secret Life, il tempo umano è comparato con quello delle piante. Lo spazio può apparire vivo se il tempo d'osservazione è sufficientemente lento. C’è un tentativo di pensare a tutto il vivente come cosciente. Secret Machine, che s'ispira alle ricerche di movimento di Eadweard Muybridge, comincia con la citazione «to measure is to know» di Lord Kelvin e vi è, secondo me, qualcosa di spaventoso in un’affermazione del genere. Come un medico anatomizza il corpo di un essere umano, Reynolds cerca di esplorare il corpo del tempo tagliandolo. Il mezzo d'avvicinamento a quest'infinita dimensione misteriosa è la macchina, la macchina cinematografica. Egli cerca di penetrare il tempo analizzandolo nei più piccoli dettagli, scomponendolo in particelle, rallentandolo. Ma una volta che l'unità è scomposta, qualcosa si perde, perché l’insieme non è semplicemente una composizione di parti. Vi è qualcosa di più, qualcosa d'inafferrabile e d'invisibile, che si ostina alla cattura, e che all'occhio della macchina sfugge.

 

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La città come corpo meccanico

        

La maggior parte dei video di Reynolds sono girati negli interni, perché, spiega: mi piace il controllo di un set cinematografico. Di nuovo il controllo, della mente matematica dell'artista. La serie City Films (NYC Symphony, 1995; Stadtplan, 2004; Last Day of the Republic / Letzter Tag der Republic, 2010) rappresenta invece le città di New York e di Berlino, ovvero degli esterni. Eppure, anche la città è analizzata e rappresentata come una struttura. Il corpo della danzatrice in Secret Machine è esaminato come una macchina biologica, la città di Berlino come un corpo meccanico. Un sistema apparentemente freddo e intoccabile. Ma ogni corpo può essere, da dentro o da fuori toccato. Morso o baciato. Nel video Stadtplan, l’immagine è divisa in due parti, una lunga sequenza di doppie immagini. L’orologio segna i secondi. Non-stop. Stadtplan è stato realizzato in collaborazione con il poeta Gerhard Falkner, ed è emblematica la poesia che accompagna le fotografie: «Case sono parole, strade sono frasi, città sono libri, paesi sono biblioteche, e si arriva alla domanda, che cosa è l'uomo?» («Häuser sind Wörter, und Straßen sind Sätze, und Städte sind Bücher, und Länder sind Bibliotheken, wir stoßen auf die Frage, was ist der Mensch?»).

 

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I resti, il topo o l'incubo

 

Che cosa è che sfugge al controllo del regista? Che cosa è che l'artista lascia sfuggire per poi nuovamente captare e imprimere “per sempre” sulla pellicola? Ciò che resta, è il topo visto con la coda dell'occhio in un sogno, qualcosa di amorfo e lontano, qualcosa di profondo e interiore. L'angoscia. Nel cinema di Reynolds, questi resti si traducono nell'atmosfera di un incubo infinito e insopportabile, che sembra risiedere giusto qualche millimetro sotto le immagini filmiche di perfetta bellezza che l'artista realizza con estrema bravura. Chi sono questi fantasmi che popolano l'immaginario di Reynolds? Ogni spettatore probabilmente riconoscerà i propri.

Il lavoro del subconscio, vivo e attivo, è importantissimo per il suo processo artistico. Gli serve molto tempo per fare una scena, dice, e più tempo ci lavora più contraddittorio diventa il lavoro. Probabilmente, più il tempo si dilata, più grandi diventano le crepe, più probabili i contagi. L'approccio scientifico, l'accorta attenzione al subconscio e lo spirito ossessivo e maniacale nella ricerca della precisione dell’immagine finale creano scene di una macabra e gelida bellezza, fotografie di incubi esteticamente e visivamente perfetti, e per questo ancora più inquietanti.       

Prima di aprirsi al tema della storia e del collettivo – con The Lost, che parla di un gruppo di artisti che negli anni Trenta vivono in una palazzina berlinese, occupandosi di un cabaret e di un bar, curando un vecchio che è in realtà un vampiro (rappresentante di un codice atemporale), dove a livello concettuale il regista propone di riflettere sulle dinamiche che intercorrono tra l'arte e la società – i protagonisti della maggior parte dei video di Reynolds erano solitari, chiusi nelle loro case, chiusi nelle loro menti, soli. Raramente vi è parola nei suoi film, c'è solo il suono silenzioso e costante dell'acqua che sgorga, del fuoco che brucia, dell'elemento naturale che sempre predomina sul ticchettio della piccola vita umana.

Queste piccole vite umane spesso sono rappresentate nella loro fase finale, in un abbandono alla morte, in un deterioramento, nel loro letargico scomparire: il corpo umano come materia organica che si lascia contagiare, e marcisce. Esemplari in questo senso sono i video Six Apartments del 2007 (il declino di sei abitanti di sei appartamenti), Burn del 2002 (una casa con i suoi abitanti che brucia pian piano, da dentro) e Sugar del 2005 (il lento morire di una giovane donna). Una macabra danza tra l'ordine della scienza e il caos della vita. Un'insistente, e nello stesso tempo debole, ricerca dell'ordine di fronte alla forza incommensurabile della vita, che nell'arte di Reynolds viene spesso manifestata attraverso la morte. Come se il potenziale della vita esistesse solo nel processo della morte. In Sugar, una donna lotta contro la morte che pian piano divora la sua casa, la sua esistenza, da dentro, come un cancro. Quando la fine è inevitabile, dopo un lungo morire di mezz’ora cinematografica, in un piccolo appartamento che si è anch'esso abbandonato al caos e alla malattia, la donna finalmente prende la valigia, dove ha precedentemente impachettato il corpo di se stessa già morta, apre la porta della casa e va a scomparire nel mare. L’immagine del mare, come uscita e come salvezza – già presente nel video, in un piccolo quadro appeso sul muro della casa, dove l'occhio della macchina da presa si è posato una volta, come per chiedere l'aiuto – è rafforzata dal rumore dell'acqua che ha accompagnato con tenacia, e con tenerezza, questo lento svanire. [2]

 

 

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[1] Il progetto è ospitato da Work.lab, residenza per artisti organizzata da Nosadella.due, Raum/Xing e lo spazio Ex-Brun. Work.lab è un progetto di Lelio Aiello e si inserisce nell'ambito di déjà.vu, il progetto bolognese che da cinque anni porta avanti una ricerca sui linguaggi del contemporaneo che include artisti, studenti, pubblico e luoghi, in una dimensione dialogica e partecipativa.

[2] Info su: www.reynold-reynolds.com, vimeo.com/artstudioreynolds.

 

 

 
 

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