IL CASO MORO: RIFLESSIONI,
IMMAGINI, RAPPRESENTAZIONI
di VALERIA VERDOLINI
Una realtà non ci fu data e non c'è, ma dobbiamo
farcela noi, se vogliamo essere:
e non sarà mai una per tutti, una per sempre, ma di
continuo e infinitamente mutabile.
Luigi Pirandello, Uno, Nessuno, Centomila
Quando si dice la verità non bisogna dolersi di
averla detta.
La verità è sempre illuminante. Ci aiuta ad essere
coraggiosi.
Aldo Moro
Non
occorre aver vissuto direttamente i 55 giorni che hanno tenuto l’Italia col fiato
sospeso nel 1978 per averne memoria e condividerne il pathos, i dubbi, le
perplessità.
Come ha
scritto Giuseppe d’Avanzo, «Quello che non va è la storia, non la memoria. La
storia, dopo trent’anni, dovrebbe essere ferma, fissa in un ordine temporale chiuso
e ordinato, immobile, ragionevolmente condivisa alle nostre spalle e dovrebbe
essere deficit della memoria farsi abitualmente ondivaga, flessibile,
soggettiva, un po’ falsaria. Per il caso Moro questo equilibrio è capovolto: la
memoria è solida, resistente, “condivisa”; la storia è fragile,
contraddittoria, incerta, ancora precaria, quasi impedita dalla memoria».
La storia
non risolta è storia presente, storia viva, che scorre e investe anche chi,
come me, non era nato e non può averne ricordi.
Il caso
Moro, come pochi altri nella storia italiana, si caratterizza per una
persistenza delle immagini che strutturano e consolidano la memoria collettiva,
che entrano prepotentemente nel vissuto. Tutti coloro che c’erano ricordano
perfettamente cosa stavano facendo il 16 Marzo 1978 o dove si trovavano il 9
Maggio. Chi invece è nato successivamente, possiede solo le fotografie e le
narrazioni filmiche di quei giorni.
Le
immagini non solo ci evitano i difficili snodi tra storia e memoria, ma ci
permettono di riflettere sulla relazioni tra l’avvenuto e il possibile, tra il
narrato e le sue molteplici interpretazioni.
I 55
giorni del rapimento possono tranquillamente esser riassunti visualmente con 3
immagini, i fotogrammi che hanno scandito lo scorrere di quei giorni.
La prima
fotografia in ordine cronologico è quella dell’Alfetta Bianca che tampona la
“132” del Presidente in via Fani, una serie di corpi scomposti, scivolati
all’improvviso sulla strada come frammenti di una collana in pezzi. Aldo Moro
non c’è, e in quel cimitero senza tombe, è l’assenza ingombrante del corpo
fisico che si nota. Tuttavia, questa sottrazione, intrisa del sangue dei cinque
membri della scorta, non è ancora vero momento degenerativo, non permette di
realizzare pienamente ciò che sta accadendo.
È
solamente con la seconda immagine che si rivela concretamente cosa sta
sopraggiungendo: una bandiera sgualcita sullo sfondo, la stella a cinque punte
incorniciata dalle parole “Brigate” e “Rosse”; sulla destra, con la testa
china, la camicia sbottonata senza cravatta, Aldo Moro.
A questo
fotogramma, va a sovrapporsi nella memoria un altro pressoché identico, che si
differenzia solamente per la presenza del quotidiano La Repubblica (scattata dopo il falso
comunicato del Lago della Duchessa), e per una sorta di primo piano lievemente
più ravvicinato. È in questo momento che si realizza il primo, reale
scollamento visivo tra Aldo Moro-Uomo e Aldo Moro-Presidente della Democrazia
Cristiana.
Virginia
Woolf sostiene che sia l’abito a costituire la simbolicità dell’uomo di potere,
«Come sono vari e sontuosi e ricchi gli abiti indossati dagli uomini colti
nella loro funzione di uomini pubblici![…] Non solo intere categorie di uomini
vestono allo stesso modo d’estate come d’inverno – caratteristica ben
strana per un sesso che afferma di mutare d’abito a seconda della stagione e
per motivi di gusto e di comodità personali – ma ogni bottone, ogni
fiocco, ogni nastro sembra possedere un significato simbolico»
[1]
.
Abito,
gemelli, camicia, cravatta. In questo caso è il vezzo ufficiale a scomparire,
emblema di un potere, dei luoghi di potere. Quasi in una sorta di equazione
perfetta, in cui ad un simbolo in meno si aggiunge uno stemma in più: la
bandiera delle BR che campeggia sullo sfondo, l’indicazione visiva di quel
cambio di ordine, il tentativo maldestro di un rimpiazzo malriuscito.
La terza
immagine, infine, è la prima che affiora nella nostra mente in ordine di forza
visiva e drammaticità, per la surreale teatralità che l’accompagna: il
portellone aperto della Renault 4 Rossa in via Caetani, il corpo scomposto tra
la coperta e il sedile, il ritorno della giacca e della cravatta, ma una barba
trascurata a rammentarci il tempo passato dei 55 giorni sospesi.
Queste
tre fotografie sono i binari in cui muoversi per la ricostruzione e l’analisi,
seppur rapida e forse superficiale, dello squarcio profondo nel cielo di carta
della democrazia italiana avvenuto nel 1978.
Partire
dalle immagini significa affidarsi alla (parziale) verità degli occhi, in un
labirinto di interpretazioni e di riletture, di detti, non detti e di segreti
(di Stato).
Attraverso gli scatti che abbiamo
ricordato, si può ricostruire rapidamente un processo di degradazione del
simbolo a uomo, che esplicita le difficili dinamiche che hanno caratterizzato
il rapimento, ma anche gli anni successivi al ritrovamento di Moro.
Aldo Moro si trasforma rapidamente
in Vitangelo Moscarda, il protagonista del romanzo di Pirandello, diviso tra
rappresentazioni e definizioni – legate sempre più spesso al nome “Il
presidente” (e all’immaginario relativo a quel ruolo) che alle nomenclature più
private – che lo hanno visto protagonista ora come marito, ora come
fratello, come amico, come padre o come nonno.
Col rapimento di Aldo Moro, le
diverse molteplici identità, che erano sempre state raccolte nel corpo, si sono
sdoppiate, separate, e destinate a non ricongiungersi più.
Nonostante
la filmografia su Aldo Moro sia folta e densa di pellicole che, con dissonanti
approcci, hanno cercato di raccontare le sfaccettature della sua personalità
pubblica e privata, e le molte ombre che si stendono sulla vicenda, mi sembra
opportuno ricordare, per significato e diffusione, solamente tre titoli: Todo
Modo di Elio
Petri, Il caso Moro di Giuseppe Ferrara e Buongiorno, Notte di Marco Bellocchio.
La
macchina da presa nei film d’inchiesta si è sempre mossa come coscienza
giudicante non solo perché sceglie tra le immagini a disposizione della
simulazione filmica, ma, soprattutto, perché si trova a scegliere tra le
diverse, contorte opzioni della storia.
Il
vincolo di realtà delle immagini mitizzate di quei giorni, la cerimonia di
degradazione del presidente della DC da uomo pubblico ad uomo privato, da “il
Presidente” ad Aldo, obbliga i tentativi di una sua rappresentazione filmica a
diversificarsi e ad offrire scorci distinti, che rendono spesso irriconoscibili
lo stesso uomo e la medesima vicenda.
Perché
riprendere Todo Modo, il controverso film di Petri? Perché il “continuum” attoriale di
Gian Maria Volonté che riveste i panni di Moro nel film di Giuseppe Ferrara
permette di sottolineare la differenza tra il “prima” e il “dopo” rapimento;
come le dinamiche simboliche e nominali abbiano agito efficacemente.
Nel 1976,
Aldo Moro è “Il Presidente”, è il simbolo riconosciuto di un “modo” di fare
politica. Già nel 1974, nel celebre articolo Il vuoto di potere, Pier Paolo Pasolini spiegava
come, durante “la scomparsa delle lucciole” (ossia il passaggio dall’Italia
rurale a quella industriale), Moro fosse stato l’iniziatore di un nuovo
linguaggio tecnocratico e incomprensibile, quello che lui definiva “il
linguaggio del potere”. La rappresentazione di Volonté, nel film di Petri, fa
eco a quell’immaginario: “il Presidente” è calcato sull’uomo pubblico, senza
nome, sulla maschera politica che viene indossata da chi viene investito da
quel potere che poi è chiamato a ricoprire. Proprio per poter criticare
liberamente la classe politica che stava governando, Petri ricorre
all’allegoria, e stacca l’immagine filmica dal reale per poter raccontare una
verità più pregnante attraverso le maschere.
Lo stesso
Volonté, nel 1986, a dieci anni di distanza, leva la maschera simbolica dal
volto (che rimane lo stesso) e indossa i panni dell’uomo, con le costole
doloranti, con i dubbi, con le fragilità e le paure di chi si trova a vivere
una passione nel covo di via Montalcini riprodotto da Ferrara in Il caso
Moro. Il regista
sceglie un film di rappresentazione, che – come direbbe Baudrillard
– parte da un principio di equivalenza del segno e del reale: ciò che
vediamo è quella che il regista, attraverso studi e ricostruzioni storiche e
processuali, ritiene essere “La verità”, lo svilupparsi della storia e degli
eventi di quei 55 giorni.
Infine,
in Buongiorno, Notte, Bellocchio sceglie la simulazione, specifico del linguaggio filmico
(sempre con Baudrillard), che si contraddistingue per “una generazione,
attraverso i modelli, di un reale senza origine né realtà”, aprendo uno spazio al
possibile. La condizione di possibilità è l’unica concepibile. Il regista
decide deliberatamente di far evaporare tutte le tensioni politiche lasciando
la scena all’umanità e la sofferenza di Moro-Herlitzka. È un Moro in pigiama,
spiato e rannicchiato nella piccola branda, timido e mite, è l’Aldo delle
lettere a Noretta (volutamente vengono elise tutte le lettere “politiche”),
degli appelli talmente accorati e dai “piccoli occhi mortali” che riescono a
suscitare anche la commozione della sua carceriera Chiara-Braghetti. In questo
film, tutti i simboli vengono sottratti, l’ellissi dei ruoli e delle funzioni è
evidente, ed anche i brigatisti, così come il loro prigioniero, sono ripresi
nella propria quotidianità, non nel braccio di ferro con lo Stato. La scelta
“affettiva” ha una doppia valenza: non solo privilegia una condizione di
compassione e di sofferenza (sicuramente reale) del protagonista, ma sottrae al
concerto emotivo il terzo attore della vicenda, lo Stato, condannandolo ed
evidenziandone la freddezza e il disinteresse (che vengono raccontati
attraverso la carrellata sui volti di Governo, tratta da un’immagine di
repertorio e riproposta alla fine del film).
Entrambi
i registi che hanno reso omaggio esplicitamente alla vicenda dei 55 giorni di
rapimento hanno scelto l’uomo Aldo Moro, il professore sessantaduenne: attraverso
il suo sguardo, il suo pathos, hanno giudicato quei giorni e quegli anni, non
solo procedendo ad una ovvia condanna degli autori materiali ma estendendo il
senso di colpa anche agli attori ufficiali, che per salvare il corpo del re, ne
hanno sacrificato un altro. Solo Moro uomo può giudicare e condannare tutte le
parti coinvolte, tutte ugualmente responsabili: il simbolo rimane sempre ai
margini del sistema, una funzione sostituibile: dopo un Presidente, un altro
Presidente.
La
relazione viene ben esplicitata da Giuseppe Ferrara nel dialogo tra Mario
Moretti e Moro- Volontè nella “Prigione del popolo”:
MM.:“In
questa guerra lei non è un uomo per noi, ma è una funzione, la funzione che lei
svolge all’interno del sistema. Si dice che lei sarà il prossimo Presidente
della Repubblica, bene il prezzo della sua libertà deve essere equiparato al
valore della sua funzione.”
A.M: “E
se il sistema non mi giudicasse così funzionale?”
La
funzione di “Presidente” diventa sostituibile, perché come scriveva Eco pochi
giorni dopo l’inizio del rapimento, «Il capitalismo moderno, che investe in
paesi diversi, ha sempre uno spazio di manovra abbastanza ampio per poter
sopportare l'attacco terroristico da un punto, due punti, tre punti isolati.
Poiché è senza testa e senza cuore, il sistema manifesta un'incredibile
capacità di rimarginazione e di riequilibrio. Dovunque venga colpito, sarà
sempre alla sua periferia».
[3]
Nel
momento stesso della sua sottrazione fisica, Moro diviene un soggetto “ai
margini” del sistema politico: con la destituzione dalla sua funzione politica
attraverso la detrazione del corpo da parte dei rapitori, anche la capacità
verbale di far parte di quel sistema, di comunicare attraverso il sistema delle
missive, diviene improduttiva, degradata. Così, Moro, come tutti i soggetti ai
margini, da interlocutore privilegiato diviene inascoltato e le sue lettere
mistificate.
Secondo Kantorowicz il corpo del
re può essere raffigurato come corpo doppio, perché consta dell’elemento
transitorio che nasce e muore, e di un secondo elemento permanente, che si
mantiene come supporto fisico ma tuttavia intangibile del regno.
I “due corpi del re” che avevano
contraddistinto tutta la teologia politica, nel caso Moro vengono perfettamente
riprodotti e separati, ogni parte segue un percorso distinto: il cosiddetto corpo
mistico, nella
sua aleatorietà, viene strattonato per tutta la durata del rapimento come
“merce di scambio” simbolico tra lo Stato italiano e le Brigate Rosse; il
corpo reale invece, spogliato del suo ruolo simbolico di potere, diviene nuda vita, homo
sacer e, per
questo, uccidibile, non solo, ma in grado di liberare chi lo “uccida” dalla
colpa di omicidio. Così, di fronte alla morte dello statista-homo sacer, tutti sono colpevoli e allo
stesso tempo tutti sono innocenti, potendo scaricare sul “nemico” le colpe e le
responsabilità.
La riflessione, che viene presa a
prestito da Giorgio Agamben rivela l’analogia intercorrente tra eccezione
sovrana e sacratio. Sovrano e homo sacer si stagliano come figure simmetriche: sovrano è
“colui rispetto al quale tutti gli uomini sono potenzialmente homines sacri”; homo sacer è “colui rispetto al quale tutti
gli uomini agiscono come sovrani”. I terroristi, così come lo Stato, si pongono
nei confronti dell’ostaggio come sovrani, e ne definiscono la sua sacertà, la condizione di abbandono che
contraddistingueva coloro che si trovavano nello Stato di eccezione, al bando
del sovrano.
La capacità di duplicazione del sé
di Vitangelo Moscarda non permette di sfuggire appieno alla condizione di sacertà: il corpo non è sempre così
libero di riprodursi e svincolarsi dal “campo politico” nel quale è immerso.
Secondo Foucault il corpo è non solo ascrivibile ad un principio vitale, a
studi di ordine demografico o patologico, a processi fisiologici o metabolici,
a ciò che attualmente si chiama biologia, ma che in greco veniva ricondotto al
termine zoé (“vivere” comune a tutti gli esseri viventi): secondo il filosofo francese il
corpo è direttamente immerso in un campo politico, “i rapporti di potere
operano su di lui una presa immediata, l’investono, lo marchiano, lo
addestrano, lo suppliziano, lo costringono a certi lavori, l’obbligano a delle
cerimonie, esigono da lui dei segni”.
Così, il corpo di Moro, anche se
non è più funzione politica, rimane un “corpo politico”, anzi “un corpo di
Stato” del quale disporre.
Il corpo prigioniero di Aldo Moro
è così allo stesso tempo corpo doppio in quanto corpo “sovrano”, corpo
“portatore di potere” ma anche “corpo minimo” come tutti i corpi che subiscono
una punizione, i corpi dei condannati.
Ancora Foucault: “Se il
supplemento di potere da parte del re provoca lo sdoppiarsi del suo corpo, il
potere eccedente che si esercita sul corpo sottomesso del condannato non ha
forse suscitato un altro tipo di sdoppiamento? Quello di un incorporeo, di
un’’anima’, come diceva Mably. La storia di questa ‘microfisica’ del potere
punitivo sarebbe allora una genealogia o un elemento per una genealogia
dell’’anima’ moderna. Piuttosto che vedere in quest’anima i resti riattivati di
un’ideologia, vi si riconoscerebbe il correlativo attuale di una certa
tecnologia del potere sul corpo. Non bisognerebbe dire che l’anima è
un’illusione, o un effetto ideologico. Ma che esiste, che ha una realtà, che
viene prodotta in permanenza, intorno alla superficie, all’interno del corpo,
mediante il funzionamento di potere che si esercita su coloro che vengono
puniti [...]. L’anima, effetto e strumento di una anatomia politica; l’anima,
prigione del corpo».
In questo caso, l’anima democristiana
è divenuta la sbarra dietro la quale i brigatisti hanno recluso per 55 giorni
Aldo Moro. Così, il 16 marzo 1978, si pensò di rapire il simbolo dello Stato, e
di custodirlo in via Montalcini assieme al corpo e l’anima di Aldo Moro.
Decostruito il potere ideologico e simbolico di Aldo Moro, attraverso la
degradazione politica e visiva, non è rimasta che la nuda vita, che è stata
uccisa come ultimo gesto di sfregio, sberleffo al sistema, delirio di
onnipotenza del gruppo armato, liberando definitivamente il simbolo che si
voleva offuscare. In questo punto della riflessione avviene un paradossale
rovesciamento del rapporto sinallagmatico tra corpo e simbolo, tra nuda vita e
anima, tra presidente della Democrazia cristiana e uomo.
Così, il doppio corpo del re, come
nell’antica Roma, è stato sottoposto a doppia sepoltura nella Roma “dopo la
scomparsa delle lucciole”.
Le vicende dei doppi funerali di
Aldo Moro riprendono in maniera pedissequa le analisi di Kantorowicz, ripresa
successivamente da Agamben, sulle pratiche di sepoltura dei re francesi. Su un lit
d’honneur veniva
esposta l’effigie cerea del sovrano, trattata in tutto e per tutto come la
persona viva del re. La pratica viene ricondotta da Kantorowicz all’apoteosi
degli imperatori romani, i quali, una volta morti, venivano sostituiti da una
imago di cera: “matrone e senatori stavano allineati su entrambi i lati, i
medici fingevano di tastare il polso dell’effigie e di prestarle le cure,
finché, dopo sette giorni, l’immagine moriva”.
Recuperando gli studi sulle
cerimonie funebri degli Antonini, Agamben parla allora di “funerale per
immagine”, in quanto nelle cerimonie imperiali il funus immaginarium affiancava il cadavere imperiale,
lo duplicava e non lo sostituiva.
Allo
stesso modo, Aldo Moro, dopo esser stato ritrovato nella Renault in via
Caetani, è stato anch’egli doppiamente sepolto, come gli imperatori romani: il
funerale in corpore fu svolto in forma privata a Turrita Tiberina, solamente per la
famiglia; a questo fu fatto seguire il funerale in effigie, senza corpo né familiari,
celebrato dal Papa alla presenza di tutta la classe politica in “luttuoso
doppiopetto”.
Il doppio
funerale obbliga l’uomo a sopravvivere a se stesso, ad essere recluso nello
scomodo ruolo dell’eroe, e a divenire nuovo significante per molteplici
messaggi. È sempre Pirandello a ricordarci che: “Sorte miserabile quella
dell'eroe che non muore, dell'eroe che sopravvive a se stesso”.
Il corpo esanime di Aldo Moro,
spogliato dell’anima e dell’afflato vitale, gettato nel baule di una Renault
abbandonata in via Caetani, diventa simbolo di altro, emblema della brutalità,
arma apotropaica da sventagliare nei confronti del terrorismo, elemento di
coesione dello Stato italiano.
Il
simbolo “politico” ha superato il corpo, il corpo ha assunto valore e dignità
politica solo nel momento in cui è trasmigrato nuovamente a simbolo “sociale”.
Di fronte
al sacrificio del corpo in nome di un simbolo, solo attraverso la
rappresentazione filmica dell’uomo è possibile tentare di riempire il vuoto
lasciato dal salvataggio del simbolo e cercare a poco a poco di restituire
umanità ad una vicenda schiacciata dalla ragion politica.
La
ricerca di frammenti di verità attraverso le immagini e la ricostruzione della
storia attraverso le narrazioni filmiche è all’oggi un efficace strumento di
indagine di fronte al muro di gomma del segreto di Stato:
Il
linguaggio politico, come viene usato dai politici, non si avventura in nessuno
di questi territori dal momento che la maggioranza dei politici, in base ai
dati in nostro possesso, non sono interessati alla verità ma al potere e al
mantenimento di quel potere. Per mantenere quel potere è essenziale che le
persone rimangano nell’ignoranza, che esse vivano ignorando la verità, persino
la verità sulle loro stesse vite. Perciò quello che ci circonda è un vasto
tappeto di menzogne, delle quali noi ci nutriamo.