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ATTRAVERSO TE

UNA LETTERA D'AMORE

di MARIO LUCIO GENGHINI

A te si arriva solo attraverso te. / Ti aspetto. / Io sì che so dove mi trovo, / la mia città, la via, il nome / con cui tutti mi chiamano. / Però non so dove sono stato con te. / Là mi hai portato tu...

La sera prima di incontrarla cercavo qualcosa di interessante da scrivere sul concetto di ek- stasis di Ejzenštein, inteso come salto continuo da un registro espressivo all’altro, da una condizione sensoriale all’altra, che definisce un’esperienza emozionale attiva. Ma non sentivo il pathos necessario, avevo da poco concluso un articolo filosofico convenzionale, e passare a parlare di cinema con lo stesso tono non mi entusiasmava. Insomma la riflessione è importante, ma quando si guarda un film o una qualsiasi opera bisogna sentire, per poterne scrivere, sempre un po’ dello stupore dei ragazzini che guardavano, nei lunapark o nelle fiere, nel kinetoscopio di Edison (macchina da visione, dotata di un oculare, che, funzionando attraverso l’inserimento di monetine, consentiva ad uno spettatore per volta, girando una manovella, di vedere l’alternanza di immagini impresse su pellicola). Non sentivo l’acquolina in bocca per lo zucchero filato e frugandomi nelle tasche mi accorsi che erano bucate, non avevo più nichelini da spendere. L’urgenza che muoveva dentro, allora, era trovare qualcosa che mi ri-guardasse.

Come avrei imparato la strada / se non guardavo nient'altro che te / se la strada era dove tu andavi, / e la fine fu quando ti sei fermata? / Che altro poteva esserci / più di te che ti offrivi, guardandomi? / Però adesso che esilio, / che mancanza, / e lo stare dove si sta...

Il giorno seguente sono su Facebook; un sito, che è tra i miei contatti, condivide un link di un articolo che ha pubblicato. Clicco indolente, do una scorsa distratta all’articolo, poi frugo nel sito, fluttuando nella logica (stanca) dell’ipertesto …. Ed eccola! Ragazza, Parigi 1970, una foto di Ferdinando Scianna. Non c’è tempo per una riflessione sociologica, non prevalgono meccanismi di difesa culturale e storica, non mi domando se la ragazza ha partecipato al maggio francese o se la moda femminile è cambiata. Non c’è tempo per inseguire una semiosi fotografica, non sono nemmeno un esperto di fotografia. Non c’è tempo, non vuol dire che vada di fretta, semplicemente incomincio a vivere un tempo altro, non un real time, ma un tempo sospeso, il tempo dell’incontro, dell’occasione. Non mi domando se la ragazza attende il fidanzato o un’amica, non fantastico di incontrarla, di invitarla a prendere un caffè. Sono semplicemente sedotto da lei, mi separa dal resto, ma allo stesso tempo mi trattiene. Mi sento inciso nel suo (mio) occhio. È contornato da un alone scuro, dove i confini sono rimarcati dal sopracciglio sinistro e da una ciocca di capelli. L’ombra scura che avvolge l’occhio traccia una regione spettrale, malinconica, mi suggerisce Pierrot, mimo triste innamorato della luna. Lo sguardo della ragazza non è diretto verso l’obiettivo, è altrove, un altrove indefinito, istante desiderante in cui guarda, si perde, e noi non possiamo vederla se non dietro ad un velo. Nel suo mistero malinconico la percepisco anche determinata, spietata nel suo candore, come se la crepa nel muro, che lo spettatore si trova di fronte, fosse un tentativo di confine, di contenimento visivo, che il suo sguardo ha dis-tracciato. La ragazza sta arabescando pensieri, sogni, segreti impenetrabili, ed io non sono così stupido da voler svelare il mistero, solo voglio sentirlo più forte. Ho il fiato mozzato. Disarticolando il viso, inizio a muovermi insicuro tra l’ombra che contorna l’occhio, la sclera e quel che è possibile intercettare dell’iride e della pupilla, come se tutti questi elementi si facessero cenno reciprocamente, in un gioco segreto e sofisticato di rimandi. Sento che è rischioso quello che faccio, quell’occhio e quello sguardo potrebbero assorbirmi completamente, mentre li attraverso e lo riattraverso. Nella traversata scivolo sul profilo francese, affronto tutto il nero più nero della giacca scura fino ad arrivare alla mano in tasca e già mi risuonano delle parole Gilles Deleuze e Felix Guattari. Necessito di una pausa di riflessione. Devo andare a cercare quelle parole, sento che ho un affare in sospeso sia con queste che con la foto, che lascio per un po’ sapendo che vi farò ritorno diverso. Le frasi che cercavo fanno riferimento a differenti forme di divenire, di disarticolazioni identitarie. Queste: «Varcheranno il muro e usciranno dai buchi neri e porteranno i tratti stessi di viseità a sottrarsi all’organizzazione del viso, a non lasciarsi sussumere dal viso, lentiggini che filano all’orizzonte, capelli mossi dal vento, occhi che traverseremo invece di guardarci in essi o di guardarli nel cupo faccia a faccia delle soggettività signficanti» (Mille piani, Castelvecchi 2006, p. 265).

 

Eppure il divenire ripensando alla foto, non può darsi senza una sospensione, uno scarto. Il divenire non è una mera accelerazione, eccitazione corriva in un susseguirsi di immagini, ma un’amplificazione di tempo. Inciampo, allora, nelle parole di Raymond Bellour, il quale sostiene che quando le foto diventano un inserto cinematografico avviene una sorta di micro-evento: “La loro fissità relativa mitiga ‘l’isteria’ del film. Questo è il segreto della loro seduzione (per chi vi è sensibile). Si pensa con accresciuta intensità a ciò che il film evoca nel momento stesso in cui ci si incorpora nel suo slittamento. In questo scarto leggero, si può anche pensare al cinema” (Fra le Immagini, Mondadori 2007, p. 77). Il divenire di Deleuze e Guattari ha convocato la fissità di Bellour (Ejzenštein intanto mi risuona meglio, meno astratto). La fissità affascinante della fotografia per Bellour crea un’interruzione, fa dialogare due registri estetici, ponendo lo spettatore in una condizione di amplificazione percettiva e di rielaborazione di ciò che vede. Quando la foto deve “fare da sola” però oggi ha un compito più arduo: emergere da un vortice di isteria di iper-simulazione che ci espone ad un flusso di immagini indefesso (dalle immagini informatizzate, in digitale, in 3D). Rifletto ancora… La ragazza di Parigi mi ha rapito, sedotto, mi ha messo in condizione di creare un’interruzione interna al dispositivo della comunità virtuale, dove si condivide di tutto: canzoni immagini, articoli, pensieri. La comunità virtuale non è che l’eccesso della condivisione e dunque è ridicola, non è nemmeno ossessiva, semplicemente prevedibile, può generare una caduta distratta in una sorta di autismo critico-sensoriale. Eppure non possiamo prescindere da certe procedure codificanti come quelle dei social network; l’ardire allora sarà quello di pensarle come un’occasione, non di evasione regolata, ma di trasformazione. Il problema forse è che ci troviamo spesso imbrigliati in un doppio legame, da un lato con un’ipertrofia di immagini abbacinanti, dall’altra con lo svuotamento delle immagini che i media ci offrono nel loro eccesso. I media, in fondo, non mediano più nulla, ma costruiscono una realtà, nella sua rutilante diversità, programmata, univoca, depressa nel suo essere sensazionale. Se linee di fuga si offrono, allora, ho l’impressione che si traccino senza scivolare in preconcetti moralismi o nell’autoreferenzialità di nuove pratiche artistiche. Non si può scardinare tutto con un’immagine, con un’opera, una pratica, con una teoria. Forse l’unica cosa da fare è farsi ricettivi con tutti i mezzi a nostra disposizione, senza timore, fino all’ultimo respiro, alle incrinature, alle porosità che questa realtà avviluppante non riesce a dominare, provando così ad aggirarla, attraversarla, riconnetterla, ripresentarla.

Aspetto, passano i treni, / i destini, gli sguardi. / Mi porterebbero dove non sono stato mai./Ma io non cerco nuovi cieli. / Io voglio stare dove sono stato. / Con te, ritornarci. / Che intensa novità, / ritornare un'altra volta, / ripetere mai uguale / quello stupore infinito…

Ritorno alla foto. Dubbioso. Ho il timore che le parole di Mille piani siano state un rifugio, un’anticipazione veicolata per qualcosa che sentivo di ancora non vissuto fino in fondo, forse stavo solo proiettando l’istanza incerta dello spettatore spectrum pensoso, mi stavo solo specchiando mortificato nel me stesso pietrificato? Ma dov’è allora la ferita, quella ferita che mi rimorde?

La ragazza è totalmente in nero, la giacca, il cappuccio, la sciarpa… Il bianco è solo nella pelle del viso, nell’interno del cappuccio che riusciamo vedere e infine in un confine, sottilissimo, un territorio liminare tra la manica della giacca e la tasca: lì possiamo intravvedere una strisciolina di pelle del polso, mentre il pugno affonda nella tasca. Quel micro territorio epidermico mi restituisce una corporeità della ragazza: non è più solo volto-enigma o donna in nero, ma un corpo amante da sfiorare senza possesso, perché la sua distanza rimane inesauribile e colma di grazia. In quell’istante mi sento librare, ho abbandonato quel residuo di spettralità spettatoriale, quel raddoppiamento di un me fantoccio che urtava ai bordi della prima attrazione, quella dell’occhio di lei. In quella terra di nessuno epidermica, leggera, ho trovato il punctum (scrive Roland Barthes: «Il punctum in una fotografia è quella fatalità che in essa mi punge, ma anche mi ferisce mi ghermisce», La camera chiara, Einaudi 2003, p. 28). Attraverso quella impudica porzione di spazio che affiora dai vestiti rivedo gli occhi di lei, differenti, risento l’attesa, posso dilatare lo sguardo in qualsiasi traiettoria, dalle spalle, al muro, alle labbra. Eros polimorfo ha scoccato le sue frecce. E non è finita… intreccio immagini della mia vita passata nell’istante presente, prefiguro un futuro possibile o forse già in atto… la bocca della ragazza mi sussurra «ora…  traboccato… avvenire».

Altre domande si presenteranno successivamente, e con esse altri tentativi, seppur incerti, di risposta. Il supporto dello schermo del mio pc rende giustizia alla foto? Non posso esserne totalmente sicuro, ma che importa, ho colto un’occasione, l’ho colta al volo, sto già immaginando e pensando. È possibile intercettare uno sguardo in una metropolitana oggi con la stessa facilità, quando i monitor ti sputano negli occhi e nelle orecchie continui messaggi pubblicitari? La risposta è un esile e allo stesso tempo risoluto sì. È sempre possibile che un’immagine ti conduca altrove, che ti scelga fra le altre, ma bisogna essere vigili nell’attesa dell’imprevedibile. Si può non rimanere succubi di un gioco fantastico e fantasmatico nel flusso continuo di immagini in cui siamo compresi? Quando un’immagine ci rapisce è possibile non cadere in un’illusoria scorciatoia piacevole e banale che non fa altro che riconfermarci all’interno di un mondo iper-simulacrale? Credo di sì. Si può, a patto di non volersi ritrovare identici, ma trasformati e arricchiti, andando verso gli altri che da sempre ci abitano. Ma tutto ciò può essere vissuto solo tenendo a mente di non essere troppo seriosi, solo se hai lo zucchero filato in una mano e un nichelino nell’altra.

La foto della ragazza mi ha posto all’incrocio del venire alla presenza di ciò che è dato e una riconfigurazione incoativa, qualcosa di non conclusivo ma sempre aperto, qualcosa che ritorna differente e non mi rende spettatore passivo, come all’origine di una molteplicità narrativa che non si chiude in una prensione unitaria. Sta in ciò il balenare di potenza di questa foto-esperienza, di questo incontro al metrò, tutto l’opposto di un test programmato. Ora intendo meglio il monito mai dimenticato alla fine del romanzo Nadja di Breton: «La bellezza o sarà convulsa o non sarà». Nadja mi ricorda la ragazza di Parigi, entrambe figure di donna attraverso le quali registriamo la realtà e che allo stesso tempo non smettono di insinuare pieghe nel visibile, di lacerarlo, di sconvolgerlo.  Non sono figure archetipiche, leggi delle serie dei nostri vissuti, ma una sfida alla piattezza del vissuto unidimensionale. Non sono archiviate nel nostro passato, ma da sempre ci danno un brivido che nella sospensione, nella fissità, non smette di produrre molteplicità in divenire. Producono convulsioni che ci fanno muovere e respirare altrimenti ma che non generano conseguenze permanenti.

Ed ecco, allora, che l’intreccio poetico con Pedro Salinas non è una codificazione di ciò che doveva essere o che è stato, ma un convulso tradimento. Tradimento, etimologicamente vuol dire consegnare-oltre, andare oltre un modello, una riconferma nel già detto e nel già visto. I versi di Salinas che hanno attraversato questo scritto sono una mise en abime, un lancio di dadi, dove l’immagine e la parole si fronteggiano, si seducono pur appartenendo a due regimi espressivi diversi. Prende forma così un rapporto al limite, un’amorosa corrispondenza tra registri estetici che non si completano, ma che sono da sempre minacciati da un fuori campo, da un’alterità, che è riserva di immaginazione e opportunità di scardinare la stasi, il radicamento percettivo, disobbedendo alle fantasie che producono solo un effetto di movimento, e consegnandoci ad un’attesa palpitante, ad un divenire attraversante.

E fino a quando non verrai tu / io resterò sulla sponda / dei voli, dei sogni, / delle stelle, immobile. / Perché so che dove sono stato / non portano né ali, né ruote, né vele. / Esse vagano smarrite. / Perché so che dove sono stato con te / si va solo con te, attraverso te.

 

 

 
 

- i n f o @ r i f r a z i o n i . n e t -