LA RIVOLUZIONE SERIALE
UNA CONVERSAZIONE CON NICOLA
LUSUARDI
di FEDERICA IACOBELLI
Se
prendere posizione rimane la sola via di uscita dalle piccole e grandi
ambiguità e quindi l’unica strada alla prova dell’andar più a fondo, non esito
a dire che Nicola Lusuardi è stato il miglior docente, vero e proprio faro nei
mesi del corso Script/Rai di formazione e perfezionamento in sceneggiatura da
me frequentato ormai qualche anno fa. Oggi sceneggiatore di film tv come tra
gli altri La Monaca di Monza, Crimini e Puccini, docente di sceneggiatura e scrittura televisiva in
diverse scuole da Script al Centro Sperimentale di Cinematografia fino alla
Holden, tra i fondatori nel 2008 del Premio Solinas - S.A.C.T Piloti per Serie
Tv che già alla prima edizione ha registrato una partecipazione numerosa e
appassionata sia da parte di principianti che di professionisti, autore del
libro La rivoluzione seriale. Estetica e drammaturgia nelle serie hospital (Dino Audino 2010), Nicola
Lusuardi mi è sembrata la persona più adatta per cominciare a parlare di
fiction tra le pagine di Rifrazioni.
Narrazioni
televisive, narrazioni in serie: una realtà che è antica quanto la tv, ma che
solo in tempi molto recenti ha cominciato a far parlare di sé nel mondo
accademico assurgendo a oggetto di studio critico, analitico e letterario.
Di fatto
se ne parla ancora poco. E credo che le ragioni di questo silenzio siano
storiche. La narrativa per la tv nasce infatti nel dispositivo combinato di due
pregiudiziali che ne hanno determinato l’ideologia, una di ordine sociologico e
una di ordine “industrialistico”. Intendo dire che, per decenni, il prodotto
narrativo televisivo ha dovuto pregiudizialmente soddisfare due necessità,
quella di una economia di scala che doveva mettere a reddito l’idea, e quella
di una società/pubblico domestica ritenuta di basso livello qualitativo. In
realtà, naturalmente, la televisione non ha mai fatto solo questo: ha fatto di
più, già dall’inizio. Ciò nondimeno queste due pregiudiziali hanno condizionato
le potenzialità del testo televisivo agli occhi degli studiosi, lasciando che
tutto ciò che era ‘racconto tv’ restasse appannaggio di chi guardava alla tv
come a un medium omologante, sociologico: approcci tutti legittimi, certo, ma
che per le ragioni culturali di cui dicevo sono rimasti esclusivi e hanno
rallentato l’attenzione della critica cosiddetta colta e di chiunque potesse
rivolgere uno sguardo alto alla prassi del leggere la narrativa televisiva. Si
è trattato di un pregiudizio talmente dominante, che non è bastata la velocità
della rivoluzione estetica cominciata negli Stati Uniti agli inizi degli anni
Ottanta del secolo scorso, la rivoluzione della narrazione multilineare che va
da ER fino ai Sopranos, perché il tipo di attenzione
mutasse. Né è bastato il fatto che cineasti come David Lynch o Quentin
Tarantino abbiano cominciato a dedicare attenzione nuova ai modi e alle
scoperte della narrazione televisiva.
Che
cosa, allora, ha potuto o potrà attrarre l’attenzione del “lettore colto” alla
narrativa televisiva?
È stato
necessario, credo, che tutto il lavoro di maturazione narrativa elaborato tra i
decenni Ottanta e Novanta del secolo scorso desse i suoi frutti post-Sopranos, diciamo da Six Feet Under al più recente Mad Men, e producesse opere che arrivano
a sovraesporre la propria complessità contenutistica e testuale ponendosi come
dichiaratamente filosofiche. Solo di fronte a questa sovraesposizione il mondo
dei lettori colti ha cominciato a rendersi conto che la serialità poteva
produrre qualità narrativa non inferiore alla letteratura. Considerando, in
ogni caso, che si tratta ancora di una presa di coscienza sbalordita. Certo,
oggi non esiste un solo cinefilo che non ammetta le vette raggiunte da certa
fiction d’oltreoceano. Eppure i testi analitici sull’argomento sono ancora
pochissimi, non solo qui da noi, ma anche in America.
Chi si
potrebbe citare, per esempio?
Penso
alla scuola di Simone Regazzoni e al collettivo Blitris, che ha portato a testi
su Dr House e
su Lost di
stampo filosofico derridiano, o anche a Sex and the City e la filosofia di Carola Barbero (Il Nuovo
Melangolo 2010), nato all’interno della stessa scuola. Si tratta però ancora di
un esiguo numero di testi, al massimo di qualche tesi di laurea, e di saggi che
nella maggior parte dei casi ancora eludono un approccio estetico alto e
restano più prossimi a un’analisi sociologica o fenomenologica del corpo del
testo. Mi viene in mente, a questo proposito, il bell’articolo di Francesco
Pacifico sulla Domenica de Il Sole 24ore del 26 settembre 2010. Pacifico scrive a proposito
delle reazioni suscitate dall’uscita americana dell’ultimo romanzo di Jonathan
Franzen, Freedom,
e risponde a detrattori e sostenitori dell’ultima opera dello scrittore
parlando di qualcosa che secondo lui né gli uni né gli altri hanno preso in
considerazione: «Lo scopo per cui Franzen manda indietro l’orologio del genere
romanzo, secondo me, è vincere la battaglia contro la nuova grande forma d’arte
del nostro tempo: la serie televisiva di alta qualità, che ha già capolavori
assodati in Six Feet Under, Sopranos, Mad Men e The Wire, opere di sorprendente complessità, varietà e generosità
narrativa, umana e tematica, di largo consumo». Il 26 settembre scorso ha visto
anche il debutto della nuovissima serie della HBO, Boardwalk Empire, creata da uno degli
sceneggiatori dei Sopranos, Terence Winter, e diretta da Martin Scorsese. Che il
modo seriale produca oggi specificità estetiche dirompenti e punti a standard
qualitativi altissimi, negli Stati Uniti è cosa del tutto metabolizzata. Lo è
al punto che Francesco Pacifico, per dar conto delle due opposte posizioni
critiche sull’ultimo romanzo di Franzen, non può fare a meno di riferirsi al
problema della narrazione della fiction come vetta narrativa dei nostri tempi.
E se anche da noi, vedi per esempio il paginone su Mad Men uscito sul quotidiano “La
Repubblica” appena qualche settimana fa, questa consapevolezza comincia a
diventare oggetto di dibattito pubblico, vuol dire che presto potrà diventare
oggetto anche di una critica più alta e impegnata.
Della
narrativa televisiva tu sei studioso, ma anche autore: che ricaduta ha questa
doppia prospettiva sul tuo lavoro di scrittura?
Ha
un’enorme ricaduta. Personalmente, da militante della narrazione, ritengo che
non si possa praticare o tentare di praticare nell’innocenza nessuna delle
forme d’arte di cui mi occupo. Non è un caso che io, come molti altri, abbia
appreso le cose più importanti sulla narrazione sui testi di scrittori che
parlano di scrittori. Le riflessioni di Proust come di Stevenson, di Kundera come di Borges o
Calvino, sugli scrittori e sulla scrittura, possono portare a illuminazioni
folgoranti a proposito dei processi del narrare. Per me non esiste grande
scrittore che non sia stato grande lettore, intendendo per grande scrittore il
creatore di opere rimaste valide nei tempi o comunque rivelatrici rispetto alla
realtà, e per grande lettore non un lettore onnivoro ma uno capace di farsi
interrogare sempre dai testi che legge e che ama. Oggi forse nelle scuole di
arte e di drammaturgia non si dedica abbastanza attenzione all’esercizio della
lettura. Insegnando in diversi contesti, mi accorgo che i giovani, anche se
hanno gusti propri e spesso sofisticati, mancano di quella tensione etico-estetico-conoscitiva sui testi degli
altri. Così accade che semplicemente imitino ciò che amano, senza
consapevolezza, e pervengano quindi a un manierismo superficiale. Lo studio, la
lettura analitica dei testi che si amano, è molto sottovalutato. Ma non puoi
leggere, se nessuno ti ha dato gli strumenti per farlo. Credo sia un problema
culturale e formativo, ma anche un problema di percezione e tensione rispetto
alla necessità di un sentimento agonistico in rapporto con una materia viva
come la nostra. Si tende a considerare il gesto creativo come un gesto che
nasce dalla pigrizia e di conseguenza non si insegna la enorme complessità
dello spazio e del passaggio tra un tempo funzionale e un tempo non funzionale
nella creazione.
Una
domanda paradossale: secondo te, si potrebbe oggi utilizzare la stessa
distinzione che era ed è tuttora in uso per il cinema e parlare di una fiction
d’autore e di una fiction commerciale?
Credo che
questa distinzione si sia generata in un tempo che non è più il nostro, dentro
paradigmi culturali che non sono più i nostri: che questa dicotomia, insomma,
non ci aiuti più a interagire con la complessità del reale. Se volessimo
continuare ad usarla, e volessimo applicarla alla fiction, troveremmo già un
cortocircuito, per esempio, in una realtà come quella della televisione
americana, che ha trovato proprio nella centralità dell’autore la sua risposta
commerciale più convincente. Si tratta di una logica di “diritto”, dei
cosiddetti “creative rights”, ma si tratta in fondo anche di una logica
trascendente. Negli Stati Uniti il sistema editoriale televisivo ha trovato un
equilibrio di efficienza tra gli anni Ottanta del secolo scorso e gli anni
Dieci del Duemila proprio massimizzando il valore economico nella massima
ricerca di originalità. Quando grandi idee “tout public” come ER ottenevano un successo
planetario, ci si accorgeva che a fare la differenza ‘commerciale’ era stata
proprio l’identità stilistica del prodotto. All’interno di questo processo, è
andata affermandosi l’idea che la pietra preziosa da cercare sia l’idea, e non
l’idea qualunque ma l’idea di un autore, e non di un autore qualunque ma di uno
che la sua idea sappia gestirla, accudirla e svilupparla. In assenza della
pressione della necessità commerciale, non ci sarebbero stati serie come Lost, Desperate Housewives e Grey’s Anatomy, che nel 2004 hanno portato la
ABC dall’ultimo al primo posto televisive degli incassi pubblicitari. Ma in
assenza di questo processo, non avremmo oggi nemmeno una serie come Mad Men che ha risvegliato e sfidato gli
intellettuali alla narrazione televisiva e che sfida la creatività dei grandi
romanzieri con un prodotto sofisticatissimo e di certo non rivolto al pubblico
generalista. Il fatto è che con Mad Men, a processo già avanzato, la logica dei grandi
numeri è potuta diventare logica dei numeri di qualità. Perciò, tornando alla
definizione di partenza, credo che la distinzione tra commerciale e autoriale non sia più capace di descrivere
le dinamiche reali dell’editoria e dell’autorialità contemporanee.
Parliamo
invece dell’autore di fiction in Italia: dal di dentro, che cosa puoi
raccontarci?
Il mondo
editoriale italiano è fatto, come tutti sanno, di pochissimi editori, ovvero
Rai e Mediaset con un solo canale per ciascuno, più rari pezzi di Sky e Fox che
in ogni caso non fanno sistema. Tutte queste produzioni hanno grande lentezza
nel rinnovare l’offerta, e l’esiguità dell’offerta determina che il rapporto
tra l’editore broadcaster e il singolo prodotto da lui scelto sia un rapporto
molto forte, fondato sull’ossessione di affermare l’identità del broadcaster
nell’identità del prodotto. Ci si è così equilibrati attorno a un baricentro,
ovvero all’idea che il vero autore sia l’editore, ciò che ha generato
conseguenze e sui processi di selezione e sullo sviluppo dei progetti. Di
fatto, una parte estremamente rilevante delle prerogative che nel sistema
americano o anche semplicemente nel cinema fanno capo all’autore, si sono
spostate nella tv italiana in capo all’editore.
E il
pubblico della fiction italiana, in tutto questo?
I dati
Auditel sono disponibili a tutti, basta cercare su www.tvblog.it. Ma
illuminante da questo punto di vista è stato anche l’esito di un convegno
organizzato dall’associazione 100autori a Roma nel luglio 2010. Il pubblico
oggi si è frammentato e ha articolato i suoi consumi. Nella fascia oraria della
prima serata, molti si sono spostati sulla rete. Un anno fa il picco su
Internet era a mezzogiorno, diciamo nella pausa ufficio, ed era quantificato
attorno al 10% di share, mentre oggi si è spostato attorno al 14 % di share
nell’ora del prime time! Se poi analizzassimo meglio questo dato rispetto al
tipo di pubblico che usa la rete, un pubblico relativamente colto e
relativamente giovane, la prospettiva si farebbe di impressionante complessità.
Quello che è accaduto, di fatto, è che il pubblico si è diversamente
distribuito. Il pubblico degli affezionati alla fiction della televisione
italiana si è ridotto e va riducendosi, ovvero riduce la sua varietà nella
composizione sociale, culturale e geografica, va omologandosi sempre più ed
esclude sempre più larghe fasce di spettatori potenziali: quelle al di sotto di
una certa età, al di sopra di un certo livello culturale e al di là di una
linea geografica. La fiction televisiva, vista in questa prospettiva, si specializza
nel soddisfare una nicchia che una volta era sempre nicchia ma larga e oggi
invece si fa sempre più stretta. Questo vuol dire che il sistema è sempre meno
efficiente dal punto di vista economico, perché non rinnova l’offerta né sul
piano formale né sul piano delle differenze e specificità del pubblico.
Nel
tuo percorso, ti sei occupato a lungo anche di drammaturgia per l’infanzia. In
che modo questa esperienza entra nelle tue riflessioni e nelle tue pratiche
attuali di narrazione televisiva?
Durante
gli anni Novanta, anche quando la mia vita non era più in Emilia ma già a Roma
e si legava sempre più al lavoro per la televisione, ho avuto una lunga
esperienza di lavoro drammaturgico con il Teatro Gioco Vita di Piacenza e con
le sue produzioni di teatro per l’infanzia riuscendo anche, da questo
osservatorio privilegiato, a gettare uno sguardo ad ampio raggio sulla
drammaturgia per l’infanzia italiana ed europea. Non c’è dubbio che questa
lunga pratica mi abbia addestrato e educato alla necessità della chiarezza, che
sempre implica la necessità della precisione. E parlo, essenzialmente, di una
chiarezza e di una precisione nel racconto delle emozioni. Oggi, quando scrivo
per la televisione, sento di rivolgermi agli spettatori come a bambini, in un
senso alto: non perché siano o debbano essere poco capaci di comprendere, ma
perché sento in loro quel bisogno infantile che in ogni animo resta e non muore, il bisogno di ascoltare
storie raccontate in modo chiaro e preciso, ovvero raccontate con quel rispetto
che ti permette, come spettatore, di prendere posizione. Ecco, questo
senz’altro me lo porto dentro dall’esperienza del teatro per l’infanzia, e in
particolare di un teatro di figura come quello di Gioco Vita, un teatro che
esige la parola sintetica a servire la chiarezza del dramma, del conflitto e
della scelta. In questa chiarezza, credo, consiste anche il nodo di difficoltà
dei miei allievi di scrittura: nel riuscire a conquistare la capacità di
leggere se stessi e quindi di arrivare a comprendere se e quando si sta dicendo
davvero e in modo chiaro ciò che si crede di voler dire.