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SCUM OF THE NORTHERN SKY

 

Dentro le viscere di Until the Light Takes Us (2008)

di Aaron Aites & Audrey Ewell

 

di MAURIZIO INCHINGOLI

 

 

Intro, un primo tuffo nel passato

 

La fine di un’utopia ha inizio con la carcerazione di Kristian Larsson “Varg” Vikernes aka Burzum, “eroe” indiscusso del metal norvegese, che passa in gattabuia circa sedici anni della sua giovane vita per aver accoltellato alle spalle e alla testa il suo mentore Øystein Aarseth aka Euronymous. Un episodio di cronaca alquanto agghiacciante che farà da spartiacque tra il prima e il dopo di questa assurda vicenda musicale. I media locali si accorgeranno presto del fenomeno, facendo uscire i buoi dal recinto nero dell’anonimato underground, ed esaltandone morbosamente le gesta di presunti reietti come il sopracitato (per un certo periodo si fece chiamare pure Count Grishnackh), insieme ad altri emuli: citiamo, tra questi, il caso del giovanissimo Bård G. Eithun aka Faust, autore di un omicidio a sfondo omosessuale, testimone nel processo a carico di Vikernes, e batterista negli Emperor di Tomas Thormodsæter Haugen aka Samoth, chitarrista e fondatore della band, e collaboratore dello stesso Burzum. Tutta gente che all’epoca dei fatti è poco più che adolescente, forse ancora priva di quella necessaria distanza tra le cose importanti della vita e le facezie della passione e dell’emulazione giovanile. Ragazzini imberbi che giocano a fare i grandi, che vivono il proprio mondo chiusi in un eterno conflitto interiore, in quella enclave dorata, e socialmente sviluppata e progressista, che è la Scandinavia. In particolare in quella Norvegia, nazione fiera delle proprie radici nordiche, sempre pronta a distinguersi per moralità e tenori di vita decisamente elevati rispetto a quelli di altri. Resta però uno dei più problematici paesi europei, alludiamo al recente duplice massacro di Oslo/Utoya. Dunque, è a partire da questo presunto benessere, che di certo esisteva già all’epoca ma che forse nascondeva un malessere appena accennato, che nasce un fenomeno suo malgrado tutto interno e peculiare, per caratteristiche fisiche e idee sull’uomo, che prende il nome di “black metal”.

 

 

La rilettura del fenomeno da un punto di vista equidistante

 

Sono passati molti anni ormai da quel periodo di fuoco – anche in senso letterale – che caratterizzò la prima metà dei ‘90, e i due registi, Aaron Aites e Audrey Ewell, si muovono dagli Stati Uniti d’America fin dentro quella complessa realtà che è la Norvegia di oggi, per capire cos’è rimasto di quella scena e chi ne rinnova ancora i fasti, solo musicali s’intende, aprendo una parentesi che ci pone mille interrogativi. Finalmente vede la luce, dopo una lunghissima gestazione, questo Until the Light Takes Us, documento sonoro dall’intestazione programmatica, che prova a sondare il terreno dei ricordi di una scena musicale, o presunta tale, che confessiamo di aver temuto ed amato alla follia, consci della pericolosità anche tutta simbolica della sua musica così violenta ma allo stesso tempo parecchio affascinante. Musica che catturava le nostre sinapsi in virtù di una speciale e ardimentosa vena artistica in quanto estremizzava senza alcun pudore il primo death metal – checché ne pensino alcuni suoi sostenitori – di stampo anglosassone – quello seminale di Napalm Death & soci in primis –, per poi rallentarlo e passarlo al frullatore di esperienze tutte pagane e “arty” – vedi il caratteristico uso del face-painting –, in uno sfibrante e cacofonico suono al limite del parossismo musicale. Nel black metal confluiscono i mefitici riffs assassini degli Slayer, uniti al primitivo “satan rock” dei prime-mover Venom, con l’aggiunta di un ingrediente malefico e suggestivo, espresso nei toni vigorosamente politici mutuati dai primi fondamentali Black Sabbath. Il piatto è perciò servito, cotto e pronto per essere divorato dai più coraggiosi adolescenti che riescono a mettere le mani su dischi fondamentali come A Blaze in the Northern Sky dei Darkthrone, Filosofem di Burzum, De Misteriis Dom Sathanas dei Mayhem, Battles in the North degli Immortal, e via elencando. Tutti lavori colmi di disperante livore verso il mondo, neri come la pece e tremendamente violenti. Verranno ricordati come la colonna sonora di una generazione nascosta, ed in parte affascinata – spesso solo in modo provocatorio – da un pericoloso nazionalismo di ritorno, condito in parte anche da raccapriccianti fascinazioni post-naziste e para-fasciste – non è cosi raro trovare infatti nel Belpaese esempi di appassionati di Burzum et similia tra gli adepti di Forza Nuova – particolarmente pericolose e di facile presa su adolescenti presi dalla foga di “distruggere” il mondo. Ciò nonostante la musica in questione ci sembra adatta per descrivere atmosfere lugubri e frustrazioni umane che in quella età sono tanto sentite e, aldilà di certi testi e ideali politici decisamente discutibili, possiamo affermare con una discreta dose di sicurezza che la musica in questione è il perfetto antidoto alle brutture del mondo, proprio perché le fa sue – insomma se ribellione ci deve essere, per forza di cose essa può trovare sfogo anche in contesti socio-culturali invero agiati come quello nord-europeo – e ci dimostra di quanto si possa e si debba ancora migliorare la società nella quale viviamo. Non a caso riaffiorano nella mente idee anche “romantiche” e provocatorie come “devastare” ogni cosa per poi “ricostruire” il tutto – come asserisce proprio il biondo Vikernes nel film –, parafrasando idee ed elucubrazioni post-nietzschiane che rasentano addirittura alcune teorie di personalità affascinanti della cultura europea più illuminata, come ad esempio Emil Michel Cioran, o gli scritti ricolmi di rabbia compressa di Albert Caraco, e financo le storie senza speranza e cariche d’odio di Louis-Ferdinand Céline.

Restando però con i piedi ben piantati a terra, torniamo ai registi statunitensi, che si installano perciò in Norvegia per un po’ di tempo a studiare il fenomeno [1] , prendono coscienziosamente le misure alle propaggini rimaste del fenomeno stesso, e raccolgono testimonianze sul campo, dati, ed impressioni. Come novelli Alan Lomax – senza però quella sorta di “presunzione” figlia di una mal celata superiorità razziale affine al succitato –, Aites/Ewell dimostrano così di sapersi incuneare in quel mondo con discrezione. Lo studiano da vicino, lo accarezzano, e ne riverberano sensazioni ed umori sublimati in questo lavoro pieno di spunti critici e di riflessioni anche post-umane.

Nel farsi del film assistiamo alle interviste dei protagonisti, anche loro malgrado, di quella folle situazione anarcoide ed “ingenua”, con le dichiarazioni orrende e quasi “vuote” di Vikernes, che narra con incredibile calma Zen l’episodio per il quale è rinchiuso in carcere. Lo vediamo anche mentre sta per ingurgitare, non senza una certa ironia, la dose quotidiana di medicinali, alternato alle immagini della sua cattura, e pensiamo alla delirante e triste vita di un uomo che ha gettato in un fosso il suo talento di musicista, pagando sulla propria pelle una sfida egotizzante col leader dei Mayhem che davvero non aveva ragione d’esistere. Ma tant’è, gli autori sembrano con saggezza non prendere posizione su questa ed altre situazioni alquanto imbarazzanti e delicate: più semplicemente registrano umori ed atmosfere con una distanza forse discutibile ma al contempo affascinante e, in definitiva, efficace ai fini del risultato finale. Tanto che il lavoro si concentra soprattutto sul pedinamento e le opinioni, spesso all’apparenza distaccate di Fenriz – al secolo Gylve Fenris Nagell – batterista degli storici Darkthrone che continua a pubblicare dischi di più canonico death’n’roll e a suonare dal vivo col suo sodale e chitarrista Nocturno Culto. Quest’ultimo è stato anche l’autore di un curioso film-documentario dal titolo The Misanthrope uscito nel 2007, dove il nostro faceva le pulci a se stesso ed all’atmosfera che lo circondava, così “nordica” e radicata in quegli ambienti freddi e visibilmente celati dalla spessa coltre di neve, dove si coltivavano sottotraccia passioni e idee anche artistiche di un certo peso, come si evinceva anche dalle ottime musiche, dal sottile sapore ambient, che scioglievano nel liquido le sue chitarre di solito molto più invasive e defloranti.

Tuttavia l’elemento che colpisce di questo oscuro lavoro è, lo ribadiamo, la calma apparente dei protagonisti, ed il suo farsi mellifluo nel rievocare episodi davvero assurdi, anche dal forte sapore politico e anarchico, che ci portano alla mente situazioni che superano di molto la legge degli uomini. Tanto che, ad accompagnare tali accigliate e morbose situazioni, ci si mettono le songs scelte per lo score, che comprende entità artistiche della più diversa estrazione musicale. Dagli emuli e cattivissimi conterranei Gorgoroth, fino agli electro-blacksters Ulver, o gli Enslaved, ma anche gli stessi Darkthrone e Mayhem, passando per autori post-elettronici davvero underground come il californiano Jason Doerck aka Lesser che si occupa della musica originale – parecchio elettronica ed organica – che di tanto in tanto fa capolino in questo lavoro, o i magnifici doomsters statunitensi Sunn O))) di Stephen O’Malley e Greg Anderson, ma anche gli elettronici Black Dice e Múm, fino a combo apparentemente distanti da quelle atmosfere come il notevole duo elettronico inglese dei Boards of Canada, e i grandissimi e storici King Crimson. Va sottolineata perciò l’assoluta e visionaria scelta dei pezzi in questione, che dimostrano quanto il lavoro dei registi non sia soltanto un omaggio a quelle storie intrecciate, ma risultino anche e soprattutto come un validissimo esempio di evoluzione artistica e di connubio armonico-visuale che spesso latita al cinema. Ovvio, ci sono anche le musiche di Burzum stesso fanno capolino un’infinita serie di volte, come a ribadire la centralità di un fenomeno sia musicale che antropologico, ed in buona sostanza di quel personaggio, vero protagonista della pellicola. Che sfocia poi nella assurda, certamente provocatoria, e quasi “in-utile” messa in atto di scenari black metal da lussuoso supermercato “gore”, nella riproposizione “finto situazionista” intrapresa dall’apolide artista Bjarne Melgaard col drummer dei Satyricon, Kjetil-Vidar Haraldstad aka Frost, racchiusa in una performance nera e discutibile intitolata Kill Me Before I Do It Myself, nella quale il nostro nero lungo-crinito si sfregia con violenza – e vi assicuriamo che l’effetto shock è garantito – l’avambraccio davanti al pubblico sbigottito della galleria d’arte Laura Pecci di Milano. Scena raccapricciante che i registi potevano benissimo risparmiarsi, forse, ma che serve anche a focalizzare e a spostare più lontano e meglio l’asse di un fenomeno che s’è modificato nel tempo, che è stato capace di sublimare la violenza musicale e scenica mutuando linguaggi di vario tipo e spessore. Anche l’arte concettuale insomma s’è impossessata – e a “commerciale” ragion veduta – di una cosa senz’anima, “gratuita” e violenta come quest’idea di musica/vita/corpi che fanno scempio di se stessi senza alcuna remora. Rivendichiamo perciò, di comune accordo con i film-makers, la possibilità di teorizzare e canonizzare certe dinamiche umane anche a partire da tali effimere istanze, senza mai dimenticarci che quelle stesse hanno coniato della gran musica. Anche se, al contempo, confessiamo di fare una certa fatica ad assorbire certi assurdi e quasi ridicoli comportamenti finto provocatori, che in tutta sincerità non portano da nessuna parte, se non soltanto ad una canonizzazione artistico/coatta di ambiti già troppo sviscerati dalle rispettive e personali passioni dei singoli artisti. Il black metal ed i suoi effluvi dunque come dualistico e sconquassato metodo di logoramento sui corpi e le cervella. Oltre quelle (vere) fattesi saltare da Dead dei Mayhem, ed immortalate senza vergogna sulla copertina del bootleg Dawn of the Black Hearts, live album violentissimo e semi-ufficiale uscito nel 1995 per mano di un fan sfegatato della band di Oslo, di cui rimane solo un figurativo sentore di morte, e un nauseante e “bastardo” olezzo che allontana gli individui da un fenomeno nient’affatto conciliatorio con la società con la quale si scontra. Tanto che l’amaro in bocca ci assale, con la coppia di registi Aites/Ewell che prova ad immortalare qualcosa che è morto già da troppo tempo. Sembra infatti di vedere quasi dei putrescenti cadaveri in decomposizione, animarsi all’improvviso, che ricordano con ferale e disincantata passione un periodo della loro vita nella quale sfidavano la vita stessa, pensando di vincerla a suon di armi bianche, o “nere” fa lo stesso, e di note musicali, che rimarranno comunque ai posteri. Until the Light Takes Us vive con passione questa atroce dualità, filmando chi ne è uscito indenne, e chi ne è rimasto soggiogato, anche solo artisticamente parlando. Lo si evince molto meglio assistendo alla notevole performance inscenata da Harmony Korine – una presenza quasi obbligata, la sua, visto il lavoro fatto col notevole sonoro di Gummo (1997) – per una galleria d’arte losangelina, la Patrick Painter Gallery, dove si esibisce per la prima mondiale della sua video-performance The Devil, The Sinner and His Journey  inserita nella più ampia opera a nome The Sigil of the Cloven Hoof Marks Thy Path, dedicata al male inteso come fascinazione estetico-musicale verso personaggi “maledetti” come, appunto, Burzum e financo O.J. Simpson. Korine difatti si maschera con un pesante trucco di scena davvero eccentrico, e balla uno spastico tip tap davanti alla telecamera che fa morir dal ridere, altresì citando esplicitamente un libro fondamentale e alquanto discusso – specie da alcuni dei protagonisti di queste incredibili vicende – per comprendere il fenomeno black metal come Lords of Chaos degli autori Michael Moynihan e Didrik Søderlind. Korine affonda in senso figurato insieme ai registi ed agli autori di questo discusso volume, in un guado “culturale” paradossale e pieno di “cadaveri in decomposizione”, che solo il tempo potrà essiccare dalle polemiche intemperie della storia, ma che mai potrà celare queste incredibili vicende, che rimarranno per forza di cose indelebili. Nonostante questo dato macabro ed inconfutabile, siamo certi che rimarranno ancora di più i dischi, quelli sì vera prova del passaggio sulla terra di talentuosi e tremendi “figli di puttana”. “Scum” per l’appunto: “feccia”, sì, ma che ha composto lavori che non di rado ci hanno fatto “sbavare e schiumare” di positiva rabbia adolescenziale.

 

 

[1] Nella press-sheet del film pubblicata dalla casa di produzione, la Variance Films, reperibile all’indirizzo http://www.variancefilms.com/utltunotes.pdf, si afferma: «to capture this on film, directors Aaron Aites and Audrey Ewell moved to Norway and lived with the musicians for several years, building relationships that allowed them to create a surprisingly intimate portrait of  this violent, but ultimately misunderstood, movement. The result is a poignant, moving story that’s as much about the idea that reality is composed of whatever the most people believe, regardless of what’s actually true, as it is about a music scene that blazed a path of murder and arson across the northern sky».

   

 

 

 

 
 

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