VENDETTA PRIVATA
su Bastardi senza gloria (2009, di Quentin Tarantino)
di MAURIZIO INCHINGOLI
See these eyes so
green / I can stare for a thousand years / Colder than the moon / It's been so
long.
Feel my blood enraged / It's just the fear of losing you / Don't you know my
name / Well, you been so long / And I've been putting out fire / With gasoline.
See these eyes so red / Red like jungle burning bright / Those who feel me near
/ Pull the blinds and change their minds / It's been so long.
Still this pulsing night / A plague I call a heartbeat / Just be still with me
/ Ya wouldn't believe what I've been thru / You've been so long / Well it's
been so long / And I've been putting out fire / with gasoline / putting out
fire / with gasoline.
See these tears so blue / An ageless heart / that can never mend / These tears
can never dry / A judgement made / can never bend / See these eyes so green / I
can stare for a thousand years / Just be still with me / You wouldn't believe
what I've been thru.
You've been so long / Well, it's been so long / And I've been putting out fire
/ with gasoline / putting out fire with gasoline...
David Bowie, Cat People (Putting Out The Fire)
Al
cospetto di un’immagine che si fa materia gassosa, che si spinge quasi
cronenberghianamente dallo schermo, all'interno del cinema che di lì a poco
brucerà violentemente, rimaniamo estasiati, sconvolti.
Quentin
Tarantino ci ha sorpresi ancora una volta, ci ha messi di fronte al vero
dis-farsi del cinema. È in quelle immagini, in quel connubio-matrimonio
incestuoso accompagnato dalla marcia funebre Cat People (Putting Out The
Fire) di David
Bowie che si condensa-consuma tutto il suo lavoro assassino. In quelle parole
che sanno di vendetta felina si nascondono tutte le fisse e le paure di un
cineasta che prende a prestito questa sabba-song per immettervi una in-sana
passione, quella per un cinema che davvero manca a se stesso, un cinema a cui
non possiamo rinunciare; una miccia, un bagliore e le sue atmosfere, che si
fanno da subito nubi impalpabili, che richiedono una concentrazione ed una
determinazione da vero cinefilo consumato dal fuoco della passione. Un cinema,
questo, di fantasmi e del pensiero, di pulsioni materiche che si apprestano ad
inondare lo schermo, in un moto circolare di passione smisurata, fuori
controllo, con l'ego che va a sbattere la testa contro la malvagità e la
stupidità umana. Tarantino, volutamente, non fa prigionieri, li r-accoglie
tutti nella sua comoda alcova dove tutto diventerà cenere che puzza, pregna di
nitrato d'argento. In questo cradle of filth dove si concentrano le paure
ancestrali dell'uomo ma anche le passioni smisurate, sfrenate, al culmine di
una passione che stenta a rimanere entro i bordi della ragione. Tracima beltà e
splendore questo coraggioso Inglorious Basterds, esce dal vaso di pandora come un
liquido infiammabile e lavico che tutto brucia e tutto distrugge, sembra un
cartoon multicolore davvero psichedelico, ma senza la grandeur immaginifica spielberghiana, anzi, sembra quasi un delirante
e compresso poltergeist capovolto, un esperimento rovesciato in quel maelstrom che sa tanto
di omaggio a certi luoghi lontani dove una volta si faceva un certo cinema
senza badare agli effetti solo apparenti, ma dove s’incuneavano paura e terrore
nello spettatore solo con un manifesto ambiguo, elegantemente applicato davanti
alla facciata di un cinema che serviva ancora ad educare masse e spiriti. Che aleggiano
violenti, senza vergogna alcuna sulla stanca e decadente Europa del secondo
conflitto mondiale. Che si reca nel luogo-cinema a vedere cose come I
Diabolici (Le diaboliques, 1954) di Henri-Georges Clouzot, ma è anche obbligata dal regime nazista ad assistere
alle decadenti opere di un maestro come Georg Wilhem Pabst, e a quelle della
lady di ferro, legata a doppio filo col Terzo Reich, Leni Riefenstahl. I mezzi
tecnici a disposizione di quei cineasti erano enormi, spropositati, volutamente
ingigantiti dalla figura di Joseph Goebbels, che ne voleva fare il fiore
all'occhiello, ma anche il parafulmine identitario della sanguinaria dittatura.
Chi di
cinema ferisce di cinema perisce, sembra asserire il regista di Jackie Brown (1997), che inscena una black-comedy
sincera e cattiva, come a ribadire che quando si lavora sullo stesso piano del
nemico la lotta può diventare a sorpresa un mezzo efficace per sconfiggere con
le stesse armi, ma anche con un po' di furbizia, la grande e decadente macchina
dell'immaginario dei tedeschi. Inseguiti da un manipolo di guerrieri
statunitensi che deve penetrare fin dentro le linee nemiche, che deve a tutti i
costi sabotare il marchingegno perfetto. Ma non ha fatto i conti con la
vendetta privata di Shosanna Dreyfus – una splendida e candida femme-fatale nella figura in rosso di Mélanie
Laurent – ebrea fuggita allo sterminio della sua famiglia che prepara
freddamente il piatto della vittoria. Tarantino si fa complice di questo piano
segreto, e usa tutti i mezzi a sua disposizione per far si che il risultato sia
il più eclatante ed efficace possibile.
Aiutato
in questo da una felicissima scelta degli attori, in primis il biondo Christoph
Waltz, che con quel suo ghigno brillante rimane una delle sorprese meglio
nascoste del cinema europeo. Dove avrà scovato questo attore rimane quasi un
mistero, ma sappiamo dell'attenzione certosina del regista di Pulp Fiction (1994) per i personaggi che strabicamente si muovono in contesti non
necessariamente e cinematograficamente riconosciuti dalla massa, pur girando
film per la massa. Il suo, quindi, è un vero cinema del popolo, per il popolo,
che non si stanca però di stuzzicare, di coccolare, ma anche di prendere in
giro con astuti depistaggi e detours eleganti, figli di una natura giocosa che manca a tanto
altro cinema coevo, conscio della propria vena auto-ironica che serve a
stemperare anche un'atmosfera decisamente plumbea, come quella che si viveva in
Europa soltanto poco più di sessant’anni fa. Una pellicola coraggiosa questa,
capovolta, rivoltata come un calzino maleodorante che nasconde però un gioiello
di rara preziosità. La scrittura, la fotografia, le atmosfere e le musiche,
tutti elementi facenti parte di un'orchestra che li ingloba coraggiosamente e
li amalgama a forza di botte e scarti spazio-temporali. Un film decisamente
pop, sulla rilettura e sul farsi della storia come mai avremmo potuto
immaginare. Un'ardita operazione di recupero di materiali di scarto ormai
consunti dal tempo ed offuscati nella memoria collettiva, che ci fa sorridere
convinti della bontà dell'operazione, e ci fa godere alquanto,
inaspettatamente. Un elegantissimo film di serie zeta che finalmente ha il coraggio di
mostrare la brutalità umana, senza ipocrisie, senza per forza assistere ad una
tesi politica a volte forzatamente portata sul binario della pietà. Un
giocattolone colorato, un cubo di Rubik multitraccia che sarebbe piaciuto molto
a uno come Stanley Kubrick, regista che amava le sfide e che se ne intendeva di
ambiziosi film-progetto. Animato dalla voglia di solcare un terreno ri-lavorato
ed ancora fertile, che gioca con la lingua, e le sue differenze sostanziali, i
corpi martoriati ed il sangue rappreso, gli scalpi come testimonianza di una
lotta ebete e stronza. Un ambiente che si fa mitologica e modificata, falsata prova western ed epica a tratti, e qui sta
l'omaggio doveroso al lavoro di Enzo G. Castellari, che gioca con il confronto
furbo tra esseri umani, prede e predatori a seconda degli scenari evocati. Un
viaggio sotto forma di astuta presa di posizione nei confronti del pubblico pagante,
che vuole giocare ed immedesimarsi con i ruoli, che vuole essere partecipe di
una storia che forse poco conosce e della quale perciò ambisce in-consciamente
a far parte.
Con uno
dei finali che maggiormente faranno breccia nelle menti degli spettatori stessi.
Quel palazzo del cinema che brucia, nella quale la protagonista femminile mette
in atto la sua vendetta personale, fredda e calcolata, ma paga anche con la
vita le sue conseguenze, e che si fregia dell'accompagnamento di una delle
canzoni che meglio hanno saputo esprimere tutta la caducità della vita stessa,
quella mefistofelica song, perno della pellicola, Cat People (Puttin Out The
Fire) –
cantata da Bowie e di cui riportiamo il testo in apertura, scritta insieme ad
un geniaccio come Giorgio Moroder, che faceva da maintitle per Il Bacio della Pantera (Cat People, 1982) di Paul Schrader,
tostissimo remake dell'originale di Jacques Tourneur – che accompagna
definitivamente al macero un progetto, in una finalità mortifera e animalesca
che prima o poi doveva trovare il modo di finire, di soccombere e incenerire
l'immagine. Il cinema ha bruciato se stesso e tutte le sue possibilità di rimanere vivo. E
forse è da queste ceneri che si deve ripartire per la ricostruzione di un
immaginario che deve tornare a essere materia di studio e non solo sterile
materiale per discettare di sangue e pop-corn. Quentin Tarantino come un boia
che taglia la gola a questa macchina infernale, e che rende doverosamente
omaggio a gente che ha visto l'inferno e che di cinema se ne intendeva, eccome.
I nomi sono quelli di alcuni tra i migliori talenti del cinema europeo emigrato
negli Usa, li citiamo a caso: Fritz Lang, Billy Wilder, Alfred Hitchcock,
Joseph von Sternberg, Otto Preminger e compagnia filmante, che ringraziano
sentitamente dall'aldilà...