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STALKER

 

LA QUESTIONE DELLA SOGLIA

 

di FRANCESCO CATTANEO

Ma dove è il pericolo, cresce

Anche ciò che dà salvezza.

Friedrich Hölderlin, Patmos

 

 

Tarkovskij e San Paolo

 

Già entrato nella Zona, e anzi in vista del suo centro più riposto e segreto (la Stanza), lo Stalker spiega ai suoi compagni di viaggio, lo Scienziato e lo Scrittore, chi, secondo la sua esperienza, abbia un accesso preferenziale alla Zona medesima. Alla domanda semplicistica e quasi ingenua del Professore («Fa passare i buoni e ai cattivi taglia la testa?») lo Stalker risponde con una spiegazione più complessa: «No, non lo so. A me sembra che faccia passare solo quelli che non hanno più nessuna speranza. Non i cattivi o i buoni, ma…gli infelici. Ma anche il più infelice morirebbe subito se non si comportasse come si deve».

Come lo Stalker ribadisce più volte nel corso del film, la Zona è l’ultimo rifugio dei disperati. Essa accoglie i reietti e gli esclusi – in definitiva gente come lo Stalker stesso, che vive ai margini della società e ha un passato da galeotto alle spalle (cinque anni di galera, come gli rinfaccia la moglie nel corso del primo, sovreccitato, dialogo). Egli preferisce continuare a traghettare illegalmente nuovi visitatori alla Zona, piuttosto che dedicarsi al «lavoro normale, dignitoso» che pure gli era stato offerto. «La prigione…per me dovunque è una prigione», sentenzia lo Stalker, denunciando per intero l’inquietudine e lo sradicamento che lo attanagliano. Come scrive Angelo Signorelli, egli «è un uomo dal passato difficile e dubbio, uno che ha avuto problemi con la società, un clandestino rispetto alla legge, ma anche e soprattutto rispetto all’esistenza» [1] .

Lo stesso accedere alla Zona equivale alla consumazione di una violazione. Tarkovskij lo fa intendere tanto più chiaramente mediante la messa in scena di un vero e proprio spazio concentrazionario, con soldati armati, reti metalliche, filo spinato, cavalli di frisia, riflettori puntanti intorno. Il superamento dello sbarramento predisposto è severamente proibito e chi si avventura oltre diviene perciostesso un abusivo. Sul senso di questa interdizione si tornerà dopo.

La disperazione non è solo la condizione interiore dei viaggiatori; costituisce anche l’intonazione dello scenario da cui essi muovono. Gli ambienti del prologo, che sono anzitutto gli spazi della quotidianità (il bar, la casa), sono caratterizzati da un inarrestabile decadimento, da uno stato di consunzione, di degrado, di desolazione, quasi fossero stati abbandonati al logorio del tempo, alla cui azione l’uomo sembra aver cessato di opporsi. C’è un senso pervasivo di senescenza, di marciume, che, in circoli via via più ampi, riguarda i muri scrostati, rigonfi per l’umidità; gli edifici diroccati e malridotti; i dintorni desertici, grigi, pervasi dal sudiciume e dalla sporcizia. Ma questa impressione non è veicolata solo mediante il profilmico. Tarkovskij accresce il pesantore delle immagini facendo ricorso, a livello fotografico, all’uso di un bianco e nero tendente all’ocra.

Siamo di fronte all’emblema di una catastrofe che ha devastato ogni cosa, riconsegnandola, impotente, all’erosione delle forze della natura – un retour à la nature che può darsi quindi solo come disastro, nient’affatto come ripristino di una condizione primigenia.

In una pregnante sintesi Angelo Signorelli scrive: «All’inizio il film si sviluppa dentro uno sfacelo diffuso, che determina un forte, addirittura eccessivo, senso di oggettività: il paesaggio prevarica le persone e i loro comportamenti. La sensazione è che nessuno sia in grado di modificare alcunché, anche solo di rimuovere un manufatto caduto o irrimediabilmente rovinato. È un mondo pericolante, come un edificio malmesso che potrebbe crollare da un momento all’altro, senza che qualcuno, pur abitandovi, si dia da fare per puntellarlo. Probabilmente ci troviamo in una terra di confine, dove alcuni avamposti sorvegliano il declino di un sistema produttivo che ha devastato la natura con la potenza dei suoi strumenti e con la promessa di lavorare per la felicità della specie. Il posto reca i segni di un’antica prosperità, del fervore lavorativo, del dominio della tecnica: periodi che hanno riempito il territorio di muri, di strutture metalliche, tralicci, binari, fabbricati. La scena lascia intendere che tutto è stato posato molti anni prima; ora alcuni resti giacciono a terra, gli edifici sono sventrati, i colori sono cambiati. Questi resti stringono l’atmosfera come una morsa, la rendono irrespirabile e impraticabile come se ci si trovasse su un altro pianeta» [2] . L’uso di spazi fatiscenti e deteriorati risaliva almeno alla spiazzante rappresentazione dell’astronave di Solaris [Soljaris, 1972] (che all’iper-tecnologia del quasi coevo 2001: Odissea nello spazio [2001: A Space Odissey, Stanley Kubrick, 1968] contrapponeva un dècor assai dismesso) ed era destinato a ripresentarsi suggestivamente in Nostalghia [id., 1983]. Sovente si instaura in Tarkovskij una sorta di rispecchiamento tra la realtà interiore e quella esteriore: tanto è spiritualmente povero l’uomo, altrettanto è devastato il mondo circostante, e viceversa. C’è una sorta di complanarità tra le due dimensioni.

L’estremo squallore, tuttavia, si fa – seppure e contrario – latore di un’ulteriore possibilità, di un’oltranza. È in quel disastro che cresce l’urgenza di una salvezza. È proprio in chi è disperato che più acuto si fa l’urlo che invoca un’autentica alternativa. Finché la situazione non diviene irreparabile, si può sempre rinvenire qualche illusoria via di fuga nelle abitudini più rassicuranti, si può sempre scovare una scappatoia all’interno della realtà data per scontata. Ma può ciò costituire un reale scampo? L’ipotesi di Tarkosvkij è piuttosto estrema (profetica, si direbbe [3] ): non si può tornare indietro, ma bisogna attraversare la povertà spirituale fino in fondo per riuscire a preparare l’evenienza di una diversa via. Non si tratta di negare il proprio tempo o di porsi in qualche modo fuori da esso. Bisogna anzi farsene carico, radicarsi in esso e solo così portarlo oltre se stesso.

Tuttavia, in cosa consiste l’oltranza su cui ci si sporge?

 

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Il ruolo della trascendenza in Stalker, e le modalità del rapporto con essa, possono essere colte, almeno in prima approssimazione, attraverso un accostamento del film alla Prima lettera ai Corinzi dell’apostolo Paolo di Tarso [4] . In un appunto del suo Martirologio datato 28 dicembre 1979, l’anno del completamento di Stalker, Tarkovskij cita due versetti della Prima lettera ai Corinzi: «Sii folle se vuoi essere saggio»; «La saggezza del mondo è follia agli occhi di Dio» [5] .

Paolo operò l’evangelizzazione di Corinto durante il suo secondo viaggio missionario (50-52 d.C.) Quale fu l’occasione per la stesura della Prima lettera? Paolo risiedeva ad Efeso durante il suo terzo viaggio missionario (53-57 d.C.). Pur essendo tutto dedito all’evangelizzazione di questa grande metropoli e del suo vastissimo retroterra, non cessava di interessarsi alle altre comunità e soprattutto a quella di Corinto. C’erano voci e testimonianze secondo cui tale comunità era afflitta da abusi morali e da gravi sregolatezze. Per questo motivo Paolo rivolse un primo ammonimento ai fedeli di Corinto, il quale tuttavia è andato perduto. Quella che noi conosciamo come Prima lettera ai Corinzi fu stesa e spedita in seguito, probabilmente a causa dagli scarsi risultati conseguiti con il precedente richiamo. Secondo l’esegesi, si tratta della lettera paolina più ricca di temi, di pensiero teologico, di spunti dottrinali e disciplinari.

In 1 Cor 1, 18-31 Paolo si produce in un’ampia e articolata trattazione sulla sapienza divina e su quella umana, sottolineando l’insanabile dissidio tra le due. Egli spiega come Dio realizzi la salvezza con mezzi e per vie che il mondo giudica stolti: «Il linguaggio della croce è stoltezza per quelli che si perdono, ma per noi che ci salviamo è potenza di Dio. Sta scritto infatti: “Distruggerò la sapienza dei sapienti e annienterò l’intelligenza degli intelligenti. Dov’è il sapiente? Dov’è il dotto?”. Dov’è l’investigatore di questo secolo? Non ha forse Dio reso stolta la sapienza del mondo? Poiché, infatti, nella sapienza di Dio, il mondo con la sapienza non ha conosciuto Dio, piacque a Dio di salvare i credenti mediante la stoltezza della predicazione. Sicché, mentre i Giudei domandano segni e i Greci ricercano sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei, stoltezza per i Gentili [6] ; ma per quelli che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio, perché la stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e la debolezza di Dio è più forte degli uomini» (1 Cor 1, 18-25). Per Paolo Dio si pone dalla parte dei più umili proprio per far emergere la vanità della conoscenza dei dotti, soprattutto quella dei Greci. La predicazione degli aspostoli è «stolta» perché Dio non l’ha affidata ad abili dialettici o a individui di grande erudizione, bensì alle persone più semplici, pescatori e gente modesta.

Lo stesso vale, in qualche misura, per lo Stalker, che si definisce un verme, incapace di combinare alcunché, ma che al contempo è una sorta di apostolo della Zona. Sul limitare della Stanza egli spiega accoratamente: «Ma l’importante è solo credere. Ora potete andare». Anche qui la saggezza del mondo viene completamente esautorata e svuotata, sia essa la conoscenza del Professore, sia essa l’abilità affabulatoria e dialettica dello Scrittore: l’ultimo passo può essere mosso solo per mezzo della semplicità del credere.

In più passi della Prima lettera ai Corinzi (tra cui quello citato) viene anche segnalata una feconda inversione, per cui la vera forza è la debolezza. Tale principio risuona insistentemente in Scolpire il tempo e a esso sembra alludere un intenso monologo di Stalker: «Che si avverino i loro desideri, che possano crederci e che possano ridere delle loro passioni. Infatti ciò che chiamiamo passione in realtà non è energia spirituale, ma solo attrito tra l’anima e il mondo esterno. E soprattutto, che possano credere in se stessi, e che diventino indifesi come bambini, perché la debolezza è potenza e la forza è niente. Quando l’uomo nasce è debole e duttile, quando muore è forte e rigido. Così come l’albero: mentre cresce è tenero e flessibile, quando è duro e secco, muore. Rigidità e forza sono compagne della morte, debolezza e flessibilità esprimono la freschezza dell’esistenza. Ciò che si è irrigidito non vincerà».

Lo Stalker viene ritenuto un folle dallo Scrittore e dal Professore, che per di più non si fanno scrupolo di insultarlo e avvilirlo. La povertà e miseria di quest’uomo è pari a quella degli apostoli, che Paolo contrappone alla sopravvenuta ricchezza dei corinzi: «Io credo infatti che Dio abbia destinato noi, apostoli, come ultimi fra gli uomini, come dei condannati a morte, perché siamo diventati spettacolo al mondo, agli angeli e agli uomini. Noi stolti per Cristo, voi sapienti in Cristo, noi deboli, voi forti, voi onorati e noi disprezzati. Fino a questo momento noi soffriamo la fame, la sete e la nudità, siamo schiaffeggiati e vaghiamo senza stabile dimora, ci affanniamo a lavorare con le nostre mani, insultati benediciamo, perseguitati sopportiamo, diffamati esortiamo con bontà: siamo diventati come i rifiuti del mondo, la spazzatura di tutti fino ad ora» (1 Cor 4, 9-13).

Il compimento del “pellegrinaggio” nella Zona si ha con il raggiungimento della Stanza, luogo della rivelazione e dell’epifania. Ciò che si mostra in questo spazio recondito e appartato è la verità riguardo a noi stessi, alla nostra più intima e celata essenza. Lo Stalker proferisce enfaticamente: «Siamo arrivati alla soglia. È il momento più importante della vostra vita. Come già vi ho detto, qui si compirà il vostro desiderio più segreto, quello più sincero, quello più sofferto». A illustrare appieno il senso di queste parole è la parabola esemplare del Porcospino, così come viene riproposta nell’interpretazione dello Scrittore. Addolorato, il Porcospino aveva contravvenuto a una delle regole degli stalker – che non devono mai chiedere niente per sé – ed era entrato nella Stanza implorando la grazia per il fratello. La Zona, in tutta risposta, lo rese ricco. Era la ricchezza ciò che egli inconsciamente desiderava più di tutto. Resosi conto della sua vera natura, il Porcospino si impiccò [7] . «Chi mi giudica è il Signore – scrive San Paolo – Quindi non giudicate nulla prima del tempo, fino a che non venga il Signore, il quale metterà in luce perfino ciò che è nascosto nelle tenebre e renderà manifesti i consigli dei cuori, e allora ciascuno avrà lode da Dio» (1 Cor 4, 5).

 

Una messa in scena deteologizzata

 

Tuttavia, pur riscontrando tale vicinanza alla Prima lettera ai Corinzi, non bisogna trascurare un dato decisivo, che può suggerire l’apertura di nuovi scenari interpretativi intorno a Stalker e alla religiosità di Tarkovskij: la soglia della Stanza non viene varcata da nessuno dei tre personaggi; la rivelazione non si compie. Il taglio delle riprese è tale che risulta impossibile scrutare all’interno di tale “spazio sacro”.  Il percorso compiuto dal film viene interrotto proprio a un passo dal suo naturale coronamento. Tale interruzione dipende esclusivamente dalla manchevolezza e dall’inadeguatezza dello Scrittore e del Professore? E che dire della vita dello Stalker? È forse condannata all’incompiutezza? Non può essere, invece, che questo rifiuto di mostrare la Stanza e l’effetto dei suoi poteri rimandi a un diverso modo di stare nella Zona?

Innanzitutto occorre chiedersi: che cos’è la Zona? A questo proposito un confronto con la fonte letteraria è illuminante. Come si sa, il film di Tarkovskij si ispira molto liberamente a Picnic sul ciglio della strada, scritto nel 1972 dai fratelli Arkadi e Boris Strugatzki, maestri della letteratura sovietica del fantastico. Nel prologo del romanzo gli autori, per dare qualche notizia circa la Zona, ricorrono all’espediente di un’intervista fittizia a uno scienziato, Valentin Peelman. Quest’ultimo è stato insignito del premio Nobel grazie alla scoperta della cosiddetta “variante Peelman”. «È una faccenda semplicissima – spiega il diretto interessato – Immaginate di far ruotare una grande sfera, e di cominciare a far fuoco contro di essa con una pistola. I fori prodotti sulla sfera si troveranno disposti lungo una curva regolare. L’essenza di quella che lei chiama la mia prima scoperta è tutta in questo fatto semplicissimo: tutte e sei le Zone della Visita sono disposte sulla superficie del nostro pianeta come se qualcuno avesse sparato sulla Terra sei colpi di pistola da un qualche punto sulla traiettoria Terra-Deneb. Deneb è l’alfa della costellazione del Cigno, e il punto della volta celeste da cui, per così dire, sono stati sparati i colpi viene chiamato radiante Peelman» [8] . Con ciò non solo diviene chiaro che la Zona è la testimonianza di una visita extraterrestre, ma si viene a sapere l’esatta provenienza dei visitatori. Riguardo al significato della Visita, nel libro vengono formulate varie spiegazioni. Il titolo del romanzo deriva proprio da un’ipotesi proposta in merito dal dottor Peelman. Le Zone sarebbero i luoghi di sosta di un picnic cosmico organizzato da una civiltà aliena, presumibilmente superiore alla nostra, che, transitata per caso sulla terra, ha lasciato delle accidentali tracce di sé (come in un picnic: briciole di pane, scarti di varia natura, ecc.) e probabilmente non si è neppure resa conto della presenza umana; o l’ha ignorata a bella posta. Le Zone sono qualcosa di cui l’uomo si può giovare; ma non sono state destinate a lui.

Tarkovskij rinuncia strategicamente al titolo del romanzo dei fratelli Strugatzki: a lui non interessa tanto interrogarsi circa l’origine e il rispettivo significato della Zona, ma render conto del modo in cui essa viene attraversata e affrontata dagli uomini (di qui il titolo che si concentra proprio sulla figura dello Stalker e, come vedremo, sui modi del suo traghettare). Al prologo di Picnic sul ciglio della strada si sostituisce, nel film, una scritta scorrevole, che riporta le parole del presunto premio Nobel professor Wallace: «Cos’è stato? La caduta del meteorite? Una visita di abitanti degli abissi cosmici?». La caratterizzazione della Zona rimane un interrogativo aperto, a cui il film non dà risposta. Diversamente dal romanzo, in Stalker la Zona è una e unica: il miracolo di questa comparsa rimane isolato e irripetibile. Nel corso del film, inoltre, ogni discussione sulla Zona si risolve in una descrizione di come essa si presenti o di come possa essere attraversata; non si procede mai a una determinazione di che cosa essa sia. Ciò che ci è dato sapere è che gli uomini vi accedono per raggiungerne il centro: una Stanza in cui pare vengano realizzati i desideri più reconditi.

La Zona viene presentata nel modo più stringato e laconico possibile: essa appare, a minima, come pura anomalia, come semplice apertura di possibilità. In questo senso la proibizione di entrare nella Zona non è tanto una tutela diretta delle strutture vitali dell’ordine costituito; è, più subdolamente, l’obliterazione radicale di uno spazio autenticamente altro.

A segnare un netto scarto rispetto allo scenario desolato dell’incipit è l’avvento del colore, che subentra improvvisamente all’esaurirsi del viaggio sul carrello. L’effetto, nella sua repentinità, ricorda la transizione dal bianco e nero al colore nel finale di Andrej Rublëv [id., 1966], allorché un rapido montaggio presenta alcuni dettagli delle icone del grande pittore russo.

L’enigma della Zona ha inevitabilmente prodotto le più variegate superfetazioni interpretative [9] . Tarkovskij, invece, lascia la Zona nella massima indeterminazione. Al punto che quando la rappresenta sembra un usuale paesaggio campestre, rigoglioso sì, ma immune da qualsiasi trasfigurazione edenica o arcadica: infatti esso è disseminato di detriti e rottami, che si impongono quali reperti di un precedente intervento umano (una contaminazione?). Abbastanza similmente in Picnic sul ciglio della strada la Zona viene descritta come uno scenario industrializzato abbandonato. Tuttavia i fratelli Strugatzki gli fanno perdere ogni tipo di ordinarietà, soffermandosi sui bizzarri rimasugli della visita aliena e coniando un’onomastica stravagante e fantasiosa.

 

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Ancor più di Picnic sul ciglio della strada, Stalker è un’opera fantascientifica sui generis: in essa mancano quasi del tutto le forme canoniche e codificate della fantascienza. «In Stalker come in Solaris ciò che mi interessava meno di tutto era l’elemento fantascientifico», spiega Tarkovskij. «Purtroppo in Solaris c’erano ancora troppi accessori fantascientifici che distraevano dal tema principale. I razzi, le stazioni spaziali: le richiedeva il romanzo di Lem, è stato interessante fare tutto ciò, ma adesso mi pare che l’idea del film si sarebbe cristallizzata in maniera più precisa ed evidente se si fosse riusciti ad evitare tutto questo. Ritengo che la realtà a cui l’artista ricorre per esprimere la propria visione del mondo debba essere, scusate la tautologia, reale, ossia comprensibile e nota all’uomo fin dall’infanzia. E quanto più reale in questo senso sarà il film, tanto più convincente risulterà l’autore» [10] . Nella fantascienza di Tarkovskij, si potrebbe dire, a essere fantascientifici sono l’uomo e il suo mondo. Il regista russo osserva ancora: «In Stalker si può definire fantastica soltanto la situazione di partenza, che ci tornava comoda perché ci aiutava a definire in maniera più plastica e rilevata il conflitto morale per noi fondamentale del film. Invece, per quanto riguarda la sostanza di ciò che accade ai protagonisti, non vi è nulla di fantastico. Il film è stato fatto in modo tale che lo spettatore abbia l’impressione che tutto sta accadendo ora, che la Zona è qui, accanto a noi» [11] . A prescindere dall’uso generico che ne fa Tarkovskij, la categoria del fantastico, se intesa secondo le prospettive aperte dalla riflessione teorica novecentesca, può aiutarci a cogliere alcune specificità di Stalker. Spiega infatti Tzvetan Todorov nel suo La letteratura fantastica: «In un mondo che è sicuramente il nostro, quello che conosciamo, senza diavoli, né silfidi, né vampiri, si verifica un avvenimento che non si può spiegare con le leggi del mondo che ci è familiare. Colui che percepisce l’avvenimento deve optare per una delle due soluzioni possibili: o si tratta di un’illusione dei sensi, di un prodotto dell’immaginazione, e in tal caso le leggi del mondo rimangono quelle che sono, oppure l’avvenimento è realmente accaduto, è parte integrante della realtà, ma allora questa realtà è governata da leggi a noi ignote […]. Il fantastico occupa il lasso di tempo di questa incertezza: non appena si è scelta l’una o l’altra risposta, si abbandona la sfera del fantastico per entrare in quella di un genere simile, lo strano o il meraviglioso. Il fantastico è l’esitazione provata da un essere il quale conosce soltanto le leggi naturali, di fronte a un avvenimento apparentemente soprannaturale. [Di contro, se il lettore] decide che le leggi della realtà rimangono intatte e permettono di spiegare i fenomeni descritti, diciamo che l’opera appartiene a un altro genere: lo strano. Se invece decide che si debbono ammettere nuove leggi di natura, in virtù delle quali il fantastico può essere spiegato, entriamo nel genere del meraviglioso». [12]

Tarkovskij, a livello di messa in scena, introduce degli scarti minimi, degli slittamenti quasi impercettibili, che non si svincolano mai dalla concretissima realtà che fa capolino nel corso del film, ma che al contempo la fanno vedere diversamente. Si può trattare, a seconda dei casi, di quel movimento all’indietro della macchina da presa che, durante l’avanzata solitaria dello Scrittore verso la Stanza, conferisce una minacciosa volontà autonoma e una vita indipendente agli edifici; o di quel ralenti che dilata la caduta del dado sulla sabbia nella scenografia onirica delle dune; oppure di quelle variazioni e rielaborazioni elettroniche dei suoni ambientali. Il fantastico serve a Tarkovskij per amplificare la percezione della nostra realtà, per renderla al contempo familiare ed estranea, nota e ignota. Anche a livello stilistico e formale il cinema di Tarkovskij ben risponde alla formula di «materialismo spiritualista» messa a punto da Tullio Masoni e Paolo Vecchi [13] .

 

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Non fosse per il modo in cui viene percorsa, la Zona di Stalker non avrebbe alcuna particolarità degna di nota. A questa «scarnificazione» interpretativa della Zona ha apertamente esortato lo stesso Tarkovskij: «Mi hanno sovente domandato che cos’è la Zona, che cosa simboleggia, ed hanno avanzato le interpretazioni più impensabili. Io cado in uno stato di rabbia e di disperazione quando sento domande del genere. La Zona, come ogni altra cosa nei miei film, non simboleggia nulla: la Zona è la Zona, la Zona è la vita: attraversandola l’uomo o si spezza, o resiste. Se l’uomo resisterà dipende dal suo sentimento della propria dignità, dalla sua capacità di distinguere il fondamentale dal passeggero» [14] . 

La Stanza è sottoposta a un processo di semplificazione ancor più vigoroso ed energico. Di essa sappiamo che è uno spazio dai poteri straordinari. Ma a livello visivo non compare niente di quella straordinarietà. Anzi, la Stanza subisce un radicale “sfrondamento visivo”: viene inquadrata nel modo più “povero”, solo per scorci laterali che insistono sul varco d’accesso, negando invece qualsiasi visione dell’interno. Della Stanza conosciamo solo la soglia. Altro non ci è dato.

Va poi precisato che la soglia non è una sineddoche della Stanza, non si limita a chiamarla in causa secondo il meccanismo della pars pro toto, lasciandola per il resto immutata. L’esperienza della soglia trasforma la Stanza medesima. Ma la soglia, si sarebbe tentati di chiedere, non ha senso solo a partire da ciò che sta oltre di essa? La soglia non è solo un intermezzo, un transito temporaneo tra un punto di partenza e un punto d’arrivo, entrambi pienamente determinati? Che soglia sarebbe, se così non fosse?  In realtà in Stalker alla soglia appartiene una logica della sottrazione che si ripercuote sulla Stanza medesima.

Affinché ciò possa essere messo a fuoco, occorre rivolgere l’attenzione alle modalità del viaggio narrato dal film, a partire dal primo avvicinamento alla Zona. La scena della traslazione a bordo del carrello è composta da una concatenazione di semi-soggettive di una plasticità quasi scultorea: tali inquadrature aderiscono ai personaggi, alle loro nuche, ai loro profili, alle espressioni di volti segnati dalla vita, come in un dipinto di Hieronymus Bosch [15] . Entrare nella Zona implica più un movimento interiore che una mera traslazione spaziale. E infatti Tarkovskij, ricorrendo a long take molto statiche, lascia che il tempo vissuto di questo intervallo preparatorio si sedimenti sull’inquadratura. Incomincia così a farsi largo la consapevolezza che lo spazio nella Zona non preesiste alle condizioni e ai modi del suo attraversamento; piuttosto, esso entra in risonanza con l’evoluzione e la maturazione dei personaggi. «La Zona – spiega lo Stalker – è forse un sistema molto complesso di trabocchetti, e sono tutti mortali. Non so cosa succeda qui in assenza dell’uomo. Ma non appena arriva qualcuno tutto si comincia a muovere. Le vecchie trappole scompaiono, ne appaiono di nuove. Posti prima sicuri diventano impraticabili e il cammino si fa ora semplice e facile, ora intricato fino all’inverosimile. È la Zona. Forse a certi potrà sembrare capricciosa, ma in ogni momento è proprio come l’abbiamo creata noi, come il nostro stato d’animo. Non vi nascondo che ci sono stati casi in cui la gente è dovuta tornare indietro a mani vuote. Alcuni sono anche morti proprio sulla porta della stanza. Ma quello che succede non dipende dalla Zona, dipende da noi». Nella Zona ne va di noi stessi. Essa cambia a seconda di chi la attraversa, muta il suo aspetto, compie una sorta di continua ristrutturazione ad hominem (come accadeva, mutatis mutandis, con l’oceano pensante di Solaris). Non c’è l’uomo da una parte e il mondo dall’altra, ma – per dirla con il Martin Heidegger di Essere e tempo – un esserci che è-nel-mondo, che apre il mondo intorno a sé. Il percorso di ciascuno nella Zona dipende da ciò che egli già è e che al contempo è chiamato a divenire sempre di nuovo, sempre più responsabilmente e autenticamente. Il tragitto è periglioso, perché a ogni passo il visitatore mette integralmente in gioco se stesso. Per questo gli è necessario muoversi con circospezione (il lancio preliminare dei dadi…). A ciò allude anche il titolo del film, la cui radice è il verbo inglese to stalk, cioè «inseguire furtivamente la preda».

I pericoli che continuamente incombono non possono essere affrontati con mezzi esteriori, tanto meno con delle armi, per quanto possenti e letali queste ultime siano o appaiano. I carri armati spediti in un primo tempo a confrontarsi violentemente con l’eccentricità della Zona sono risultati impotenti, e ora giacciono nel mezzo di un campo erboso, vuote carcasse abbandonate al logorio degli elementi. Anche le pistole – secondo l’ammonimento che lo Stalker rivolge allo Scrittore – sono del tutto inadeguate e controproducenti. All’interno di un percorso conoscitivo l’ottusità cieca e piatta della violenza non può portare ad alcun risultato, e anzi prepara il più misero e vano dei fallimenti, visto che assottiglia e riduce ai minimi termini lo spazio dell’incontro con l’altro (anche quell’altro che noi stessi siamo).

Nella Zona i rapporti spaziali abituali mutano. Quando la Stanza sembra ormai a portata di mano, lo Stalker spiega: «Sì. Si sale e si entra. Ma noi non ci andremo direttamente. Dobbiamo fare il giro. Nella Zona la strada diretta non è la più corta. Più si allunga e meno si rischia» [16] . Poco oltre, di fronte alla risoluzione del Professore di fermarsi sul posto e di aspettare il ritorno dei due compagni, la guida lo avverte che da solo non resisterebbe a lungo e che per di più «non si torna indietro per la strada fatta all’andata» [17] , visto che lo scenario muta in funzione del tempo. Queste nuove indicazioni di percorrenza corroborano ulteriormente l’ipotesi che ci troviamo all’interno di uno spazio temporalizzato. Tarkovskij evoca la figura del cerchio: non si può andare direttamente “a meta”; si deve compiere un periplo lungo il quale si intersecano movimento esterno ed interno (anche la soglia, come figura della sospensione e dell’attesa, obbedisce a una logica affine). Lo spazio della Zona non è euclideo: infatti esso non solo viola il postulato che la linea retta è la più breve tra due punti, ma non si presta neppure alla raffigurazione tridimensionale – richiedendone invece una quadridimensionale, con il tempo che va ad aggiungersi alle tre coordinate spaziali. Questo territorio, di conseguenza, non è cartografabile: come proiettare, infatti, la quarta dimensione su un piano bidimensionale? L’impossibilità di misurare la Zona si riscontra anche nella seconda regola di percorrenza testè enunciata. Infatti, la Zona, impedendo di tornare indietro per lo stesso percorso, contravviene all’esigenza fondamentale del procedimento scientifico: la ripetibilità degli esperimenti, e dunque la verificabilità dei loro metodi e dei loro risultati.

Stalker è un film che tenta una delle imprese più ambiziose: quella di raccontare per immagini il concreto svolgersi della vita dello spirito e le dinamiche elementari che lo governano. Tali leggi, che pure hanno un loro rigore, rifuggono dalla precisione ipostatizzante della scienza. In questo senso vanno lette tanto la mutevolezza della Zona quanto l’inafferrabilità della Stanza, ridotta, come detto, a soglia (la soglia consente di fluidificare la Stanza, cioè di non oggettivarla, di non ridurla a una rappresentazione che si pretende esaustiva [18] ). Tale indeterminabilità non implica però una mera apofansi; è anzi il risultato di un’essenziale esperienza personale del visitatore, che non solo ridisegna “a sua immagine e somiglianza” la Zona, ma ne riplasma anche – e soprattutto – il punto nevralgico, la Stanza. Così come non c’è una Zona, parimenti non c’è una Stanza. Ma con questo non si può saltare alla conclusione opposta: che non ci sia alcuna Zona, o che non ci sia alcuna Stanza, quasi che l’una e l’altra si dissolvessero nel relativo. Nel movimento di oscillazione in cui esse sono prese si intuisce l’esperienza più propria dello spirito: la libertà. Ciò trova conforto in un’annotazione assai incisiva del Martirologio di Tarkovskij, che compare in data 5 settembre 1970: «La vita certamente non ha alcun senso. Se ne avesse uno l’uomo non sarebbe libero, diventerebbe piuttosto schiavo di quel senso, e la sua vita si edificherebbe partendo da criteri completamente nuovi. Da criteri di schiavitù. Come gli animali, il cui senso della vita consiste nella vita stessa, nella continuazione della specie. L’animale svolge il suo lavoro di schiavo, perché sente istintivamente il senso della vita. Per questo la sua sfera è chiusa. La pretesa dell’uomo sta invece nel voler raggiungere l’assoluto» [19] . Tarkovskij non dice semplicemente che la vita non ha senso alcuno; tale mancanza di senso vale sub condicione: la vita non ha senso, perché, se ne avesse uno, l’uomo non sarebbe libero; una verità manifesta e incontrovertibile costringerebbe l’uomo a una condizione servile. Il non senso non va quindi interpretato come un non senso piatto e vuoto, ma come enigma, o ancor meglio come mistero – come l’imminenza di una rivelazione che non si compie mai, come una sovrabbondanza che, nella sua multiformità persino contraddittoria, mai si esaurisce.

 

Il peso della libertà e il Grande Inquisitore

 

La questione della libertà in Stalker può essere tematizzata anche a partire da un’allusione molto sottile, inserita con apparente accidentalità e noncuranza. Nei paraggi della Stanza, il Professore manifesta tutti i suoi timori e le sue paure: «Ma quando a questa Stanza ci crederanno tutti, ve lo immaginate cosa potrà succedere? Quando tutta quella gente si precipiterà qui… Si tratta soltanto di una questione di tempo. Se non è oggi è domani. E non a decine, ma a migliaia. Tutti questi imperatori mancati, Grandi Inquisitori, Führer di ogni razza, benefattori e salvatori di tutto il genere umano. E non verranno per il denaro o per l’ispirazione, ma per rifare il mondo». «Ma questi non ce li porto, li so distinguere io!», protesta lo Stalker. «Ma cosa vuol distinguere? Lei è soltanto ridicolo. E poi non è l’unico stalker al mondo. E nessuno stalker sa con cosa vengono e con cosa vanno via tutti quelli che vi prendete la briga di guidare qui».

Tra tutte le sinistre figure evocate dal Professore, colpisce che egli faccia riferimento al Grande Inquisitore. Il Grande Inquisitore è un personaggio letterario, che compare nei Fratelli Karamàzov di Fëdor Michàjlovič Dostoevskij (parte II, libro V, capitolo V) [20] . Dostoevskij è uno dei principali protagonisti della formazione culturale di Tarkovskij e il suo nome è uno di quelli che più regolarmente ricorrono nel Martirologio (lì emerge come Tarkovskij avesse addirittura in animo di girare un film sulla sua vita).

Il capitolo dei Fratelli Karamàzov dedicato al Grande Inquisitore è un testo di straordinaria complessità e densità dal punto di vista storico, filosofico e teologico. Si tratta di una finzione letteraria inventata da Ivàn Karamàzov sulla falsariga di quelle opere poetiche in cui «si usava far discendere sulla Terra le forze celesti» [21] . Ivàn colloca l’azione in Spagna, a Siviglia, nel corso del XVI secolo. Egli si immagina che Cristo torni sulla terra per far visita ai suoi figli. Proprio il giorno innanzi si era svolto un grandioso autodafé, in cui erano stati arsi sul rogo un centinaio di eretici. Dopo aver compiuto un paio di miracoli, Cristo incrocia sulla piazza antistante la cattedrale il Grande Inquisitore in persona. Quest’ultimo, che fino a quel momento aveva osservato in disparte le gesta del Cristo, lo fa subito arrestare dalla scorta e trasportare nelle prigioni del Santo Uffizio. Il popolo è incapace di reagire, perché troppo avvezzo al potere dell’inquisitore. Di notte l’inquisitore si reca nella cella del prigioniero e gli parla, senza ricevere risposta alcuna.

La narrazione fantastica che Dostoevskij mette in bocca a Ivàn va contestualizzata all’interno della militanza panslavista dello scrittore, nonché delle polemiche ortodosse contro il cattolicesimo romano e contro l’ubriacatura papale di potere terreno, culminata con l’attività e il proselitismo della compagnia di Gesù. Nell’interpretazione eterodossa dell’Apocalisse di Giovanni offerta nel corso dell’Idiota, per esempio, viene spiegato come la grande meretrice che troneggia sulla bestia satanica [22] non sarebbe l’Impero, bensì la Chiesa romana. 

Nella finzione di Ivàn il Cristo tace perché secondo i cattolici romani egli ha reso il papa depositario dei suoi insegnamenti. Il Grande Inquisitore non esita addirittura a definire il ritorno del Cristo come qualcosa di importuno. Cristo non ha il diritto di proferire parola. «No, non ce l’hai – spiega il Grande Inquisitore – per non aggiungere altro a quello che hai già detto una volta, per non privare gli uomini della libertà che avevi tanto difeso quando eri sulla terra. Tutto quel che di nuovo predicassi ora attenterebbe alla libertà di fede degli uomini poiché apparirebbe come un miracolo, ma la loro libertà di fede ti era più cara di ogni altra cosa, già allora, millecinquecento anni fa» [23] .

Bell’impiccio quello della libertà, sospira il Grande Inquisitore; la chiesa ci ha messo quindici secoli per venirne a capo e per capire che la libertà va annientata. Alëša Karamazov, l’interlocutore di Ivàn, esprime al fratello il suo sconcerto e sbigottimento. Ivàn promette che le cose si chiariranno cammin facendo, con l’evolversi del racconto.

L’asse portante del discorso del Grande Inquisitore sta nel modo in cui vengono rilette le tre tentazioni di Cristo (Mt 4, 1-11). Nella formulazione di queste tentazioni il grande inquisitore vede all’opera «lo spirito intelligente e terribile, lo spirito dell’autodistruzione e del non essere», Satana dunque, che secondo l’Inquisitore ha capito gli uomini più profondamente di Cristo e ha intuito gli sviluppi della futura storia umana. Cristo ha rifiutato dapprima di trasformare le pietre in pani (avrebbe potuto soddisfare la fame dei fedeli e conquistarli così alla sua causa); poi Cristo si è opposto all’invito di Satana di gettarsi giù dal pinnacolo del tempio e di farsi portare in salvo dalle mani degli Angeli (la certezza perentoria del miracolo avrebbe sopraffatto qualsiasi esitazione o incredulità degli uomini); infine, Cristo non si è prostrato ad adorare Satana, per quanto quest’ultimo gli abbia offerto le ricchezze di tutti i regni gloriosi degli uomini. Il Grande Inquisitore si vanta di aver accettato – lui sì – il dono di Satana, di aver preso Roma e la spada dei Cesari. E chiede a Cristo con amarezza e disappunto: «Perché respingesti quest’ultimo dono? Accettando questo terzo consiglio dello spirito potente tu avresti esaudito tutto ciò che l’uomo cerca sulla Terra, e cioè: chi venerare, a chi affidare la propria coscienza e in che modo infine riunirsi tutti in un unico formicaio comune e concorde, perché il bisogno di un’unione universale è il terzo e ultimo tormento degli uomini [dopo il pane e la certezza sul motivo per cui si vive]» [24] .

In questo senso si spiega non solo l’accostamento operato da Tarkovskij tra i Grandi Inquisitori, gli imperatori mancati e i Führer di ogni razza, ma anche la chiamata in causa dei «sedicenti benefattori e salvatori di tutto il genere umano». Se Cristo è mosso dal desiderio di rendere l’uomo libero, e perciò si de-regalizza e de-potenzia, tali benefattori e salavatori ambiscono a rifare il mondo secondo la loro visione unilaterale.

Tuttavia, ciò che distingue il Grande Inquisitore dalle altre figure evocate è che egli offre ai credenti la possibilità di sgravarsi del peso della libertà, e lo fa proprio in nome di Cristo (correggendo magari l’opera imperfetta del Redentore in base alla lungimiranza di Satana). Il Grande Inquisitore opera in nome della fede e dello spirito. Da qui un’ambiguità che investe potenzialmente anche lo Stalker. Tarkovskij vi accenna in un passo del Martirologio datato 28 gennaio 1979, che risulterebbe quasi incomprensibile al di fuori di questa cornice interpretativa: «E se sviluppassi Stalker in un successivo film, utilizzando gli stessi attori? Stalker comincia a trascinare contro la loro volontà le persone nella “Stanza” e si traforma in un “gran sacerdote” e fascista. “Trascinati per i capelli verso la felicità”. Può esistere un modo come questo per diventare felici, “trascinati per i capelli”? Vladimir Uljanov? Šarik? Come nascono gli scuotitori di fondamenta? Sono tutte domande sicuramente non prive di senso. Devo pensarci» [25] .

Il fatto che Tarkovskij pensi a un sequel dimostra che in Stalker queste idee rimangono “dietro le quinte”. Eppure esse sono presenti in modo embrionale, quasi imbozzolate in un discorso di diverso tenore. Si pensi, per esempio, al tono delle accuse che lo Scrittore, ormai in prossimità della Stanza, muove allo Stalker: «Zitto. Sta zitto! Ormai ho imparato a conoscerti bene. Te ne freghi tu della gente. Tu guadagni soldi sfruttando la nostra angoscia. Sì, la nostra angoscia. E non è neanche una questione di soldi… è perché qui tu te la godi. Sei signore e padrone. Tu verme pidocchioso decidi chi deve vivere e chi deve morire. Sceglie! Decide! Finalmente sono riuscito a capire il motivo per cui voi Stalker non entrate mai nella stanza. Ma perché? Qui vi ubriacate di potere, di segreti, di autorità. Quali altri desideri ci possono essere?» [26] .

Formulare le leggi dello spirito è qualcosa di paradossale, di equivoco. E Stalker non sfugge all’ambiguità.

 

L’esperienza umana del trascendere

 

Quando Tarkovskij si confronta con la verità religiosa, lo fa al di fuori di ogni cornice dottrinaria o peggio precettistica. Egli, infatti, individua nell’esperienza cristiana alcune strutture di fondo dell’esperienza umana tout court. Il regista russo insiste in particoalre su un’apertura incondizionata, priva di specificazioni e di determinazioni ulteriori [27] . La speranza, la preghiera, la fede, il miracolo, il dono, l’amore vanno ridotte a forme di quest’apertura e perciò sfrondate delle relative sovrastrutture teologiche. Tarkovskij non mira all’esibizione della trascendenza; mira a dare forma narrativa al movimento umano del trascendere, inteso come possibilità della libertà umana.

È proprio quest’apertura, in sé e per sé, che il Professore vorrebbe distruggere attraverso la sua bomba. Analogamente in Solaris lo scienziato Sartorius procedeva all’annientamento degli ospiti della stazione orbitante. Nell’uno e nell’altro caso gli uomini di scienza optano per l’eliminazione di ciò che avvertono come irrazionale, incontrollabile, e perciò minaccioso. Dopo aver attribuito proprio alla Stanza tutte le nefandezze umane (da dove potrebbero provenire queste ultime, se non da quella fonte di irrazionalità e di follia?), il Professore spiega: «Finché questa piaga rimarrà aperta a qualsiasi canaglia, non avrò pace» [28] . 

In Stalker Tarkovskij mette in scena dei tipi umani [29] . Potremmo raccogliere questi tipi in due gruppi distinti: i personaggi chiusi, intrappolati nel proprio orizzonte come in una prigione; e quelli aperti, capaci di trascendere. Lo Scrittore e il Professore rientrano nella prima categoria: l’uno è portavoce del cinismo e della disillusione che hanno soggiogato e isterilito l’arte (ormai ridotta a provocazione o a dimostrazione di bravura su cui i critici si avventano come animali famelici, producendo la chiacchiera assordante dell’opinione); il secondo rappresenta l’angustia potenzialmente violenta della visione scientifica del mondo.

Nell’altro gruppo sono inclusi i personaggi che incarnano le varie forme dell’apertura – forme tutte interconnesse tra loro. Lo Stalker è una guida, un traghettatore. Per certi versi egli è un aspostolo in senso evangelico: un inviato della Zona (apostolo deriva dal verbo greco apostéllō, «io invio»). Tuttavia, la peculiarità dello Stalker è che egli è un apostolo senza Vangelo. Quando il viaggio finisce, sembra tornare a mani vuote, non fosse per il cane che gli si è avvicinato nella Zona e che ora continua a seguirlo. Come a dire che la sua spedizione non è stata invano.

La moglie dello Stalker è figura dell’amore e del dono di sé all’interno dell’istituzione del matrimonio. È una personalità etica. Lo stesso Tarkovskij lo suggerisce persino nelle modalità di messa in scena dell’intenso monologo finale, in cui la donna parla guardando direttamente nella macchina da presa, quasi interpellando lo spettatore. Questo personaggio ha accettato di vivere accanto allo Stalker e di farsi carico della sofferenza implicita nel legame. Tutto ciò non va inteso come una mera subordinazione della donna. La compassione della moglie dello Stalker è una disposizione più originaria rispetto alla contrapposizione tra attività e passività. Lo dimostra la conclusione di chiara matrice dostoevskiana, in cui la felicità viene associata al patimento. Riecheggia qui il profetico avvertimento con cui lo stàrets Zosìma congeda Alëša Karamàzov, dopo averlo invitato a lasciare il monastero: «Conoscerai un grande dolore e nel dolore sarai felice. Eccoti il mio insegnamento: nel dolore cerca la felicità» [30] .

 La figlia dello stalker, infine, incarna la fede assoluta e il miracolo. Come il padre, anch’essa fa parte di quelle «cose deboli del mondo» di cui parla San Paolo. Nella figura di questa fanciulla, che riprende quella del fonditore di campane di Andrej Rublëv, viene anche ribadito che dei bambini è il regno dei cieli (Mt 18, 3-7). La situazione di minorazione in cui versa la figlia dello stalker (è priva dell’uso delle gambe ed è muta) rende ancora più straordinaria l’assolutezza del suo abbandono. La sua fede è quella che – metaforicamente – smuove le montagne (Mt 17, 20-21). E infatti la bambina, in un tipico finale tarkovskiano, sposta i bicchieri posati sul tavolo. La figlia dello Stalker sta a testimoniare quanto inutili siano la perimetrazione della Zona e persino della Stanza. Se la soglia decostruiva la Stanza, ora il miracolo della bambina decostruisce la soglia: infatti, qualsiasi luogo si fa soglia potenziale, si fa varco, si fa occasione per il movimento del trascendere. Ciò trova una peculiare conferma se si considera il fatto che la bambina è l’unica a portare il colore fuori della Zona, facendo sì che venga superata la contrapposizione tra questo spazio eccezionale e quelli degradati e desolati della quotidianità.

Ma se alla fine il miracolo s’impone nel modo più eclatante, il film di Tarkovskij – per parafrasare Dostoevskij – non ci “asservisce” alla trascendenza? Il film lascia trapelare dell’altro. Tarkovskij sembra metterci in guardia nella scena in cui la bimba viene portata cavalcioni sulle spalle del padre. Un’inquadratura stretta fa sì che lo spettatore abbia l’impressione che la bambina abbia recuperato l’uso delle gambe – probabilmente un prodigio compiuto dalla Zona. Ma uno zoom all’indietro ci mostra il genitore che sorregge la figlia e che cammina per lei. Questo falso miracolo dà per certi versi l’impronta anche al miracolo “autentico” che si consuma nel finale.

La bambina, come si diceva, sposta i bicchieri sul tavolo. O meglio, sembra spostarli. Tarkovskij crea un’aura di sospensione e di indeterminabilità intorno all’episodio per mezzo di un raffinato gioco di richiami, che per di più fa chiudere il film circolarmente. Infatti la scena del miracolo presenta rilevanti omologie strutturali con la terza inquadratura del film, quando una carrellata laterale prende le mosse da un vassoio, mostra i membri della famiglia coricati a letto, e poi torna sui suoi passi, approdando di nuovo al punto di partenza. Il modo in cui attacca la musica, la presenza del fischio del treno e dello sferragliare delle rotaie, la simmetria dei movimenti di macchina e infine la vibrazione degli oggetti rendono le due scene assai conformi. Solo che nel primo caso non si hanno dubbi circa le cause delle perduranti oscillazioni. Nel finale, invece, il passaggio del treno (sempre in fuori campo) sembra avvenire poco dopo il manifestarsi della telecinesi. È in questa ambigua sfasatura (spazio del fantastico) che accade il miracolo: non si impone in modo perentorio e categorico, ma rimane sul filo dell’incertezza e della possibilità. Tanto che quando, con uno stacco netto, lo schermo si fa nero, continua a udirsi, pur nel suo progressivo spegnimento, il riverbero dei suoni tremolanti prodotti dal transito del convoglio.

 

 



[1] Angelo Signorelli, Nel labirinto del tempo. Stalker, in Andrea Frambrosi, Angelo Signorelli (a cura di), Andrej Tarkovskij, Bergamo Film Meeting 2004, p. 66.

[2] Ibidem, p. 61-62.

[3] Tarkovskij ritorna più volte sul tema della profezia in Scolpire il tempo (a cura di Vittorio Nadai, Ubulibri, Milano 20026). Si vedano in particolare le pagine 204-205, in cui Tarkovskij fa riferimento ad Aleksandr Sergeevic Puškin.

[4] Le citazioni dalla Prima lettera ai Corinzi saranno tratte da La Bibbia concordata. Nuovo testamento, tradotta dai testi originali con introduzioni e note a cura della Società Biblica di Ravenna, Arnoldo Mondadori, Milano 19992.

[5] Andrej Tarkovskij, Diari. Martirologio. 1970-1986, a cura di Andrej Andreévich Tarkovskij, tr. it. di Norman Mozzato, Edizioni della Meridiana, Firenze 2002, p. 297. “Martirologio” (dal greco tardo marturológion, composto di márturos e –lógion, der. di légo, «raccolgo», «dico») significa, in accezione storiografica, «libro contenente le vite e le gesta dei martiri». In ambito liturgico esso è il libro che «originariamente riportava, giorno per giorno, gli anniversari dei martiri e, in seguito, anche quelli degli altri santi, dei misteri e degli avvenimenti che sono oggetto di commemorazione da parte della Chiesa cattolica». Per estensione la parola può designare un «elenco di persone che si sono immolate per una nobile causa o per un alto ideale» (Grande dizionario italiano dell’uso, UTET).

[6] “Gentile” deriva dal latino gens, “gente, stirpe, razza”; il latino gentilis va inteso come “della stessa gente, stirpe, famiglia” (esso è dunque affine al greco éthnos). Nella terminologia cristiana antica e nel Nuovo Testamento la parola è usata per designare coloro che non sono né cristiani né ebrei, e dunque pagani.

[7] Sul punto vedi Andrej Tarkovskij, Scolpire il tempo, cit., p. 176.

[8] Arkadi e Boris Strugatzki, Picnic sul ciglio della strada, tr. it. di Luisa Capo, Marcos y Marcos, Milano 2003, pp. 9-10.

[9] Per una rassegna di tali interpretazioni, spesso interessanti peraltro, cfr. Tullio Masoni, Paolo Vecchi, Andrej Tarkovskij, Il Castoro Cinema, Milano 2001, pp. 82-84.

[10] Andrej Tarkovskij, Scolpire il tempo, cit., p. 178.

[11] Ibidem.

[12] Tzvetan Todorov, La letteratura fantastica, citato in Giorgio Cremonini, Viaggio attraverso l’impossibile. Il fantastico nel cinema, Edizioni di Cineforum – Edizioni ETS, Bergamo/Pisa, 2003, p. 8. Il libro di Cremonini nella sua prima parte presenta un’interessante rassegna degli studi più o meno recenti sul fantastico ed è dunque un ausilio prezioso per mettere a fuoco la questione trattata. Per i nostri propositi è significativo riportare anche una citazione da Roger Caillois: «Il fantastico manifesta uno scandalo, una lacerazione, un’irruzione insolita, quasi insopportabile nel mondo della realtà, [qualcosa di] inammissibile e di indicibile […]: è l’Impossibile, che sopraggiunge all’improvviso in un mondo da cui l’impossibile è bandito per definizione» (ibidem).

[13] Tullio Masoni, Paolo Vecchi Andrej Tarkovskij, cit., p. 22.

[14] Andrej Tarkovskij, Scolpire il tempo, cit., p. 178.

[15] Sul punto cfr. Tullio Masoni, Paolo Vecchi, Andrej Tarkovskij, cit., pp. 85-86; Andrea Frambrosi, Angelo Signorelli (a cura di), Andrej Tarkovskij, cit., pp. 63-64.

[16] Nel romanzo dei fratelli Strugaztki si legge: «La strada traversa è la più breve» (Picnic sul ciglio della strada, cit., p. 36).

[17] In Picnic sul ciglio della strada non esiste tale vincolo. Redrich spiega che per gli scienziati dell’Istituto, a differenza degli stalker, «il difficile è solo andare nella Zona, ma dalla Zona la caloscia li porta via da sola: ha un sistema tale, un cursografo direi, che guida la caloscia esattamente per la stessa strada che ha seguito all’andata» (ivi, p. 40).

[18] Sulle molteplici interpretazioni di questa soglia si rimanda a Paola-Ludovika Coriando, Der Abgrund und die Suche nach der Zone. Heideggers «Beiträge zur Philosophie» und Tarkovskijs «Stalker» (inedito gentilmente concesso dall’autrice).

[19] Andrej Tarkovskij, Diari. Martirologio. 1970-1986, cit., p. 38.

[20] Fëdor M. Dostoevskij, I fratelli Karamàzov, a cura di Igor Sibaldi, tr. it. di Nadia Cicognini e Paola Cotta, Arnoldo Mondadori, Milano 1994, pp. 343-369.

[21] Ivi, p. 343.

[22] Nell’Apocalisse si legge: «E io vidi una femmina che troneggiava sopra una bestia scarlatta, piena di nomi blasfemi, che aveva sette teste e dieci corna. La femmina invece era drappeggiata di porpora e scarlatto, ricoperta d’oro, di pietre preziose e di perle e aveva in mano un calice d’oro ricolmo d’abominazioni e delle sozzure della sua prostituzione; sulla fronte portava scritto un nome misterioso: “Babilonia la grande, la madre delle prostituzioni e delle abominazioni della terra”. Poi io vidi la femmina ubriaca del sangue dei santi e del sangue dei testimoni di Gesù e, osservandola, fui preso da grande stupore» (17, 3-6).

[23] Fëdor M. Dostoevskij, I fratelli Karamàzov, cit., p. 350.

[24] Ivi, p. 359.

[25] Andrej Tarkovskij, Diari. Martirologio. 1970-1986, cit., p. 240. Vladimir Il’ič Uljanov è meglio noto con lo pseudonimo di Lenin (1870-1924). Šarik è il nome del cane che diventa, in forma umana, il protagonista di Cuore di cane (1925), racconto di Mikhail Afanasievich Bulgakov dalla profonda vena satirica. «Trascinati per i capelli verso la felicità» è una formula che sottende il dibattito intorno all’illuminismo avviato da Max Horkheimer e Theodor Ludwig Wiesengrund Adorno con La dialettica dell’illuminismo (1947).

[26] In Tarkovskij i riferimenti alla venalità dello Stalker sono del tutto secondari e marginali. Nel caso menzionato è la rabbia dello Scrittore a determinare l’accusa. L’unico altro riferimento alla dimensione economica ha luogo poco dopo l’ingresso nella Zona, quando lo Stalker, indispettito nei confronti dei suoi due clienti, li invita a interrompere subito l’esplorazione: riconsegnerà loro i soldi già corrisposti, tranne una piccola somma trattenuta per il disturbo. Lo stalker è figura assai più ambigua e compromessa nel romanzo Picnic sul ciglio della strada. Già nelle prime pagine compare una vera e propria definizione di “stalker”, che suona: «Da noi a Marmont vengono chiamati così quei giovani disperati che, a proprio rischio e pericolo, penetrano nella Zona e si portano via tutto quello che trovano. Una professione vera e propria» (Picinic sul ciglio della strada, cit., p. 12). Gli stalker, difatti, sono dei predoni: sottraggono dalla Zona tutti gli oggetti stravaganti che vi si trovano onde poterli rivendere clandestinamente, secondo un listino prezzi già fissato dai ricettatori. «Stalker: uno stalker è così, gli basta solo tirar su un paio di baiocchi in più, è uno che per i baiocchi si vende la vita» (ivi, p. 23). «Lo sai anche tu, gli stalker son gente rozza, pensano solo al gruzzoletto, che sia il più grande possibile» (ivi, p. 58). Redrich Schouart, il protagonista del romanzo, fa lo stalker per slancio libertario, certo, ma anche perché odia stare a contare i soldi per tirare la fine del mese. La conclusione di Picnic sul ciglio della strada porta poi a compimento le premesse, spingendo al parossismo la doppiezza dello stalker.

[27] Riflettendo su Friedrich Heinrich Jacobi, Sergio Givone osserva: «È di fronte a Dio che l’uomo si fa abissalmente problematico, poiché Dio è per l’uomo il paradigma di ogni imperscrutabilità» (Storia del nulla, Laterza, Roma-Bari 1995, p. 170).

[28] Il Professore dice di non essere un maniaco: anche lui di solito segue il principio di non compiere gesti irreparabili. Egli, tuttavia, rinuncia a far saltare la Stanza solo quando emerge (grazie soprattutto allo Scrittore) come essa non realizzi qualsiasi desiderio, ma solo quelli più intimi e occulti. Appare allora evidente che è addirittura preferibile non farvi ingresso, perché la Stanza potrebbe rivelare cose sgradevoli e ripugnanti sul visitatore di turno.

[29] Non a caso nel film i personaggi non vengono identificati con i loro nomi propri, ma in base al loro ruolo che rivestono (lo Stalker, lo Scrittore, lo Scienziato). Va notato come, nel fare ciò, Tarkovskij proceda in modo diametralmente opposto rispetto al realismo socialista e alla teoria della tipizzazione di György Lukács. Secondo quest’ultimo la letteratura socialista doveva ricorrere ai tipi perché questi, contrariamente all’individualismo borghese, consentivano la rappresentazione della reale dialettica sociale tra le classi. Al contrario per Tarkovskij il tipico è proprio quanto c’è di più individuale e singolare. «Il paradosso consiste nel fatto che ciò che v’è di più unico e irripetibile nell’immagine, stranamente diventa tipico. Per quanto strano ciò possa apparire, il tipico si trova in relazione diretta con ciò che è unico, individuale e che non assomiglia a nessun’altra cosa. Il tipico non sorge affatto là, come si è soliti credere, dove si coglie la somiglianza dei fenomeni, bensì dove si evidenzia la loro particolarità. Io formulerei addirittura così la cosa: insistendo su ciò che è individuale, ciò che è comune viene come omesso del tutto, rimane fuori dai confini della riproduzione visibile. Semplicemente ciò che è comune viene sottinteso come causa dell’esistenza di un fenomeno del tutto unico» (Scolpire il tempo, cit., p. 105). Una grande figura letteraria come Amleto, spiega Tarkovskij, è certamente fittizia, immaginaria, “generale”. Eppure la sua tipicità non sta in quello; o meglio, sta in quello nella misura in cui la potente stilizzazione artistica di Shakespeare ha reso Amleto un uomo dai tratti ancora più marcati, nitidi, intensi, e quindi individuali, rispetto a quelli dell’uomo comune, che si perde nell’anonimato. Di qui il paradosso per cui il tipico – cioè ciò che diventa modello – è in realtà l’eccezionale, l’unico. Emerge in queste osservazioni tutta la distanza di Tarkovskij dall’ortodossia comunista e la sua vicinanza al concetto cristiano di persona.

[30] Fëdor M. Dostoevskij, I fratelli Karamàzov, cit., p. 109. Sul punto cfr. Sergio Givone, Eros/ethos, Einaudi, Torino 2000, pp. 12-13 e 79. La figura della moglie dello Stalker si avvicina a quella di Gutta, il suo analogo in Picnic sul ciglio della strada (cit., p. 64).

 

 
 

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