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DOGVILLE

SULLA CONDOTTA DEI CANI E DEI LORO PADRONI

 

di VITO CONTENTO

 

 

Dalla pressione della pienezza, dalla tensione delle forze che crescono continuamente dentro di noi e non hanno ancora la capacità di liberarsi, si crea uno stato simile a quello che precede un temporale: la natura, che noi siamo, si oscura. Anche questo è pessimismo… Una dottrina che mette fine a un tale stato, ordinando qualcosa, una trasvalutazione dei valori, grazie alla quale viene indicata una via, una direzione delle forze accumulate, così da farle esplodere in lampi e in azioni – non occorre che sia necessariamente una dottrina della felicità – liberando forza che si concentrava e si comprimeva fino al tormento, porta felicità.1

 

Anche il più sprovveduto degli spettatori, al termine della visione di Dogville, avrebbe da annotare almeno due elementi di spiccata originalità.

Una è la scelta scenografica proposta dal Von Trier. Questa cittadina in un nulla prima delle montagne rocciose, montagne insidiose e spoglie, che si fanno immaginare di nuda pietra grigia scura, come detriti geologici esuli dall’esperienza umana e dal teatro della vita, accumulati ai margini del parquet della scena: una sassaia più simile alle montagne del Kurdistan che quelle gialle e solari di un paese del sud degli Stati Uniti d’America.

La cittadina esiste solo disegnata per terra, è un microcosmo racchiuso nel buio nero della notte, o nella luce totalmente bianca del giorno. L’orizzonte, il limite per un altrove, è di colori assoluti, un nero e un bianco lucido e digitale, che non lascia spazio al concetto di orizzonte. Quindi Dogville è un vero e proprio microcosmo, un acquario antropologico, un osservatorio sociale, un paradigma di uomini-personaggi in cerca d’autore, più che di drammaturgia, dove cioè la drammaturgia c’è già, una volta apparsi questi personaggi dalla natura drammatica innata. 

Una scenografia talmente scarna, da potersi considerare ai margini di un apice del minimalismo persino a teatro. Un minimalismo che cita l’esperienza teatrale, ma la tradisce a partire dal fatto che il palcoscenico non è guardato solo da una quarta parete ma da tutti i punti di una semisfera, di una calotta trasparente, una vera e propria biosfera isolata, autosufficiente.

L’unico vaso comunicante con questo “rettilario” è Georgetown, a Dogville la strada finisce, e poi ci sono appunto le desertiche montagne sconsigliate per una fuga. Dogville è dunque alla fine del mondo, è uno dei margini del mondo.

La prima domanda è se questo minimalismo della scena, questo “acquario” descritto minuziosamente anche con l’ausilio di una voce narrante settecentesca, a tratti con la scientificità e l’ironia di un etologo alla Konrad Lorenz, che osserva in uno stagno “il cosiddetto male” e si interroga sulla violenza infraspecifica2, se questo minimalismo del luogo non voglia essere confessione di una non esistenza di Dogville.

Ci si potrebbe chiedere se Von Trier, non ci voglia dire, rappresentando la città così astratta e irreale, che il luogo o questi tipi di luoghi non esistano; se si tratti solo un espediente ambientale per una creazione artistica.

Il regista ci allontana da ogni dubbio con i titoli di coda, quando sulle note e i versi di David Bowie3 di “Young American” scorre un montaggio di fotografie di stile giornalistico, fotografie a mo’ di reportage del celebre periodico newyorkese Times, nel quale è centrale il sensazionalismo della povertà e dell’emarginazione, per provocare lo stupore del concittadino “inserito”, dell’homo democraticus e dell’homo economicus. Per altro questo montaggio fotografico, ritmico e giocoso, ci vuol dire anche che non si tratta di un’America anni ’20 o ’30, il mito dell’America dei gangster e del proibizionismo, ma le foto recenti ci dicono che le “Dogville” esistono anche oggi.

Con questo montaggio fotografico Von Trier ci dice che Dogville c’è, che le Dogville esistono, e che negli stati del Sud degli U.S.A, queste “bidonville" sono campagnole, rurali, distinte dal metropolitano.

Quindi la scelta del minimalismo scenografico è una scelta di sperimentazione, per un regista che vuole rivoluzionare il cinema4 e che vive in pieno l’era del minimalismo del segno nella rappresentazione degli spazi.

Questa riduzione nello scenografico sembra essere tesa piuttosto al voler consegnare un maggior ruolo all’eloquenza della parola e dei dialoghi, a valorizzare il testo, ma anche privilegiare un voyeurismo sull’umano, e sull’attore simulacro dell’umano.

I cittadini sono personaggi e scenografia; le case dalle pareti simulate ma inesistenti ci offrono un voyeurismo estremo, un voyeurismo nelle case, dove c’è l’elemento plastico delle pose più abitudinarie e la stanca ritualità del nucleo familiare.

L’assenza di porte e pareti, che lo spettatore deve immaginare, ma attraverso cui può vedere, fa sembrare che ogni attore che interpreti un abitante di Dogville sia sempre in scena, anche quando non è inquadrato. Sembra che ci sia l’esercizio di laboratorio da teatro sperimentale degli anni ’60 (riprodurre l’emarginazione degli antichi teatranti), in cui tutti gli attori sono sempre coinvolti, anche quando non sono in scena, anche quando non sono (in questo caso) inquadrati, la loro presenza e il loro continuare a recitare nutre chi è invece oggetto della scena in quel momento. 

Uno sperimentalismo che richiede agli attori convivenza costante e obbligata sotto una morbosa dittatura del regista che la pretende e la impone, come aveva già fatto Von Trier almeno nella casa di campagna degli Idioti, dove il regista svedese impone un’orgia richiesta come «liberazione a tutti livelli»5.

 Dicevamo che chiunque al termine di Dogville avrebbe notato almeno due elementi di straordinaria novità. L’altro elemento eclatante si trova nel finale. Cioè il fatto che la protagonista Grace decida di uccidere tutti coloro che prima aveva amato, e che poi si sono rivelati malvagi e violenti. Questo è l’elemento più forte del film in capitoli6 solo in parte tematici, e rappresenta la posizione filosofica dell’autore, il messaggio più ampio.

È ovvio che si tratta di un finale che vuole scandalizzare. È un finale che si contrappone a tutti i valori espressi fino a quel momento, valori di perdono, di tolleranza, di accettazione della violenza altrui porgendo “cristianamente” l’altra guancia. «Dio, perdona loro che non sanno quello che stanno facendo»: non è esplicitato, ma è manifesto almeno nel volto di Grace schiacciata nello stupro.

Grace da autorità morale, da simbolo di bontà, che mai vorrebbe macchiarsi di peccati, scavalca la massa di peccatori, autori di violenze gravi, e ne decide l’eliminazione al fine dichiarato di migliorare il mondo.

Grace, fino a un minuto prima della strage, fino a poco prima della “purga” che c’e’ nel finale, ha un atteggiamento che Nietzche definirebbe della décadence7: lei non manifesta una sua appartenenza a una religione, ma è evidente che la sua morale laica è il prodotto di un percorso evolutivo che prima era ebraismo, poi è cristianesmo con la morte di Dio fatto uomo (e la morte dell’autorità di Dio che perdona sempre chi si pente), poi diviene protestantesimo, e poi diviene filosofia laica, ma che ha lo stesso rapporto con il problema della morale e del perdono. Religioni e filosofie cioè della compassione.

Grace dunque, con questo finale dovrebbe scandalizzare chiunque appartenga all’attuale società civile, che sia un cattolico, un protestante, un liberale, un marxista.

 

Ma facciamo un passo indietro. Chi è Grace? Quando giunge fra le baracche di Dogville non sappiamo chi sia. È vestita da donna di un capo gangster americano anni ’30, i capelli ossigenati, la volpe argentata al collo. Sta fuggendo da quel mondo e non sappiamo perché. Teme i gangster e la polizia allo stesso modo, considerandole diverse facce della stessa medaglia.

Cos’è Dogville? Probabilmente si potrebbe definire una sacca di sottoproletariato.

E cos’è il sottoproletariato? Stando alle definizioni di tradizione marxista, se il proletariato sono quei lavoratori che non posseggono mezzi di produzione, cioè i mezzi con cui si lavora, una macchina di imballaggio, o una trebbiatrice, il sottoproletariato è quella sacca sociale che non solo non possiede mezzi di lavoro, ma è esclusa completamente dalla società del lavoro e della produzione. Ne è esclusa per i più svariati motivi sociologici, ma possono essere anche psicologici o antropologici, qui non approfondiamo. Insomma il sottoproletariato, in termini marxisti, rimane quello descritto, ad esempio, da un Pasolini in Accattone, Mamma Roma, in Ragazzi di vita e Una vita violenta.

A Dogville invece si lavora, a Dogville in molti hanno mezzi di produzione. C’è un camionista, c’è un alimentari, c’è un medico pensionato, c’è un contadino. Detentori dunque di mezzi produttivi e speculativi: un camion, un negozio, gli attrezzi del lavoro per lavorare la terra.

Dogville non è dunque una sacca di povertà derivante da un fenomeno di emarginazione economica, collegata alla disoccupazione, o a una immigrazione violenta, a una guerra.

Dogville è una sacca di capitalismo degenerato, spento, stanco, si passi la parola: annoiato. Ciò che è successo a Dogville per essere diventata così si può solo dedurre.

Era nata come città di minatori. La miniera è simbolicamente qualcosa che ha molto a che fare con il capitalismo e con un’interpretazione negativa del sogno americano: qualcosa che ha il bagliore di portare tante ricchezze ma che si esaurisce.

Tom, scrittore e filosofo del paese è molto chiaro e lucido su un punto: bisogna che i cittadini di Dogville, che sono brave ed oneste persone, tornino ad aprirsi, a mettersi nelle condizioni di ricevere un dono. Di mettersi nell’idea che qualcosa possa succedere.

L’attività che Tom ripropone al paese è dichiarata da Tom stesso come un «riarmo morale».

Le riunioni sono fatte in una chiesa senza più curato, e Tom propone queste riunioni come qualcosa di spirituale, dice esplicitamente: non ci serve l’organo, si può essere spirituali anche senza la Bibbia e senza cantare. Insomma il giovane filosofetto Tom si sostituisce laicamente alla figura storica del prete. Il filosofo che Von Trier mette in scena e che poi manifesterà tutti i suoi limiti, è come nella visione nietzchiana8 un’evoluzione del cattolicesimo.

Sono di Tom frasi del tipo: È la terra che ha dato vita a tutti noi; e anche: Bisogna mettersi nelle condizioni di saper accogliere un dono. Il narratore chiama i discorsi di Tom, «prediche morali». «Ma chi ti credi di essere? Una specie di filosofo?» dice l’unica ragazza giovane e sveglia del paese. D’altronde lui stesso, con compiacenza missionaria, all’interno di una liturgia della (falsa) modestia, si definisce minatore, che scava nell’animo umano per trovarne l’argento.

Il filosofo laico insomma ha l’atteggiamento d’autorità morale di fronte al popolo, alla stregua del religioso occidentale come si è andato a manifestare nei secoli.

Dunque Dogville è una sacca di capitalismo degenerato oppure, probabilmente mai evoluto. Ma di capitalismo si tratta.

Come in una ridente cittadina di provincia dove tutti hanno lo stesso benessere, a Dogville tutti hanno lo stesso malessere. Come in una ridente cittadina in cui tutti possiedono in ugual misura, a Dogville sono tutti ugualmente privi di tutto.

Insomma a Dogville c’è un buon regime di uguaglianza nel malessere come in una ridente cittadina c’è un buon regime di uguaglianza nel benessere.

La civiltà del lavoro a Dogville sembrerebbe la stessa di una cittadina capitalistica se non fosse che Dogville è così autarchica, isolata per pigrizia.

Il microcosmo di Dogville è così isolato da non avere rapporti diretti con la ricchezza, per cui non scattano quei meccanismi che muovono l’individuo verso la voglia di possedere ciò che possiede l’uomo più ricco. Non scatta la molla mentale del credere che la propria vita possa migliorare. Gli abitanti di Dogville non hanno in mente nulla da desiderare, non hanno manie di sviluppo del loro possesso materiale.

 

Tocqueville scrive ne La democrazia in America: “È strano vedere con quale specie di ardore febbrile gli americani inseguono benessere e come si mostrino continuamente tormentati da un vago timore di avere scelto la via più corta per arrivarci. Gli americani si attaccano ai beni di questo mondo, come se fossero sicuri di non morire (…). Li afferrano tutti, ma non li stringono: li lasciano presto sfuggire dalle mani per correre dietro ai godimenti nuovi”.9

 

Grace dunque era in fuga dal vero capitalismo, dalla democrazia, dal «dispotismo morbido», da un mondo dove c’è l’ardore febbrile di possedere nuovi beni, dove nascono sempre nuovi futili bisogni, dove questa febbre è l’unico elemento di coesione sociale e muove l’uomo verso l’affanno del lavoro, dove il narcisismo è in lotta con l’eguaglianza prodotta da un diffuso benessere, dove il compiacimento della propria autosufficienza distrugge la necessità di legami sociali.

Insomma Grace, che da qui proviene, trova in Dogville qualcosa che crede completamente diverso. Quella che si direbbe una cittadina di gente semplice, onesta, di valori antichi, spontanei e solidi. Una cittadina di brava gente che conosce ancora la necessità di un legame umano e sociale di piccolo scambio e di condivisione.

Grace che fugge dalla violenta società capitalistica, frenetica, senza ideali, quando arriva a Dogville crede non solo di aver trovato un buon rifugio dai suoi inseguitori, ma anche di aver trovato il posto dove vivere, dove innamorarsi, dove restaurare la propria morale. In Dogville Grace crede di vedere anche un luogo che può ulteriormente migliorare, con le idee di Tom, con la dialettica di Tom. Una cittadina di gente ancora tutta intera, mai corrotta. Un luogo vergine dove l’umanità può risorgere. Un luogo dove la sua etica può risplendere. Grace confonde la mancanza di desio con la mancanza di difetti.

E qui approdiamo finalmente al tema di questo dossier, La dismisura della volontà. Il primo sforzo di smisurata volontà dell’eroina Grace è il tentativo (come aliena, cioè proveniente da un altro pianeta di bisogni, da un pianeta delle virtù di possesso materiale) di farsi accettare a Dogville, di diventare cittadina di Dogville.

Le perplessità dei cittadini di Dogville sull’opportunità di accoglierla sembrano all’inizio molto semplici e collegate a una mera paura dei poteri forti esistenti nel suo pianeta, la legge della società civile e quella dei gangster.

Grace comincia così a lavorare per tutti, occupandosi per la prima volta «delle cose che non servono a Dogville».

Nei primi quindici giorni Grace riesce a inserirsi fra i cittadini di Dogville e riesce da aliena ad essere accettata.

Se non fosse che succedono due cose che faranno entrare in crisi questo legame sociale appena nato e che sembrava essersi formato con tanta inaspettata semplicità e spontaneità.

Primo, la società civile si interessa per la prima volta a Dogville e aumenta la sua ingerenza nella cittadina perché rivuole Grace.

Per l’indifesa e fragile Dogville è sempre più pericoloso nascondere Grace.

Secondo, fatto ancor più grave: intanto a Dogville è nata la democrazia. Lars Von Trier sottolinea questo avvento con la votazione enfatizzata a suon di campane con il campanile della chiesa. Risuonare di campane che porta l’idea della democrazia come religione del nostro tempo, nello stesso momento in cui proprio il voto democratico andrà a “coprire” una decisione abominevole, di tradizione letteraria tirannica: la condanna a morte di un errante.

La democrazia non solo produce questa scelta abominevole, ma allontana gli individui da una responsabilità individuale. Il fardello morale, le responsabilità di questa decisione, cioè del fatto che Grace debba lavorare duramente per tutti, appartiene a tutti e a nessuno, è per il bene della nazione Dogville.

C’è già nella città stato Dogville la burocrazia della sopravvivenza. Nella polis Dogville si è già smesso di cercare o perseguire un fine, un ideale. Ma il suo unico fine è la sopravvivenza di quella società stessa, così com’è.

Dogville conosce democrazia, stato e legislazione d’emergenza tutti assieme. «Democrazia» e «stato d’eccezione»: il connubio diviene «arbitrio». La nuova repubblica Dogville ha un “non cittadino” (Grace), che non è più un pellegrino (peregrinus, che viene dalle campagne) che semplicemente non ha il diritto civile del voto, ma non è libero. Per la prima volta Dogville riconosce in Grace un essere umano nello status giuridico di schiavo.

 

Qui inizia il secondo atto di smisurata volontà di Grace. Il secondo atto di tre.      

Questo secondo atto è quello di sopravvivere alla schiavitù; una sopravvivenza che comporta una «smisurata preghiera» attraverso il lavoro (Arbeit macht frei).

Ancora fiduciosa nelle virtù di Tom, cerca di resistere a tutto ciò che gli è imposto dai cittadini di Dogville. Vive lo sgomento e lo stupore per quanto sta accadendo. Tom piano piano finisce per rivelarsi un pagliaccio, il suo è un gioco infantile, narcisistico, pieno di trucchi, cadute e risolto nell’acrobazia.

Grace ce la fa, supera la sofferenza e il tempo della compassione e si risveglia, ritrova le sua natura con l’arrivo dei gangster.

Dogville decide di vendere la sua schiava ai gangster per gli stessi motivi per cui l’ha resa schiava: burocrazia, atto di conservazione. 

 

Poi, a chiudere il dramma, c’è il terzo atto di smisurata volontà di Grace.

Quando scopriamo che Grace è la figlia di un importante gangster. Il pensiero del padre è molto semplice, è un’etica del potere e della responsabilità tirannica. Suo padre vuole che Grace erediti la responsabilità di usare il suo potere per educare la gente.

L’arrogante padre ritiene arrogante Grace perché Grace perdona la gente. Il concetto di arroganza è qui messo al centro di una concezione simmetrica della vita. Da una parte l’arroganza del potere, dall’altra l’arroganza del perdono.

Per suo padre, la clemenza non c’è in Grace, c’è solo un narcisistico perdono che «non serve ad educare i cani che seguono i loro istinti e allappano il loro vomito». Siccome violenza ci sarà sempre, meglio che in essa ci sia un barlume di volontà umana; meglio che sia un tiranno a guidarla, piuttosto che qualsiasi uomo mosso dai suoi istinti bestiali.

Grace a questo punto capisce e sceglie nella direzione della responsabilità del potere per educare la gente e per il bene dell’umanità e per il bene dell’essere umano.  

Grace riaccetta il legame sociale di figlia, a patto che possa utilizzare il potere a suo piacimento.

Come ultimo atto di smisurata volontà Grace avvierà una “transvalutazione dei valori”5, per liberare la terra dalla feccia di Dogville. Non c’è nulla più per Grace che giustifichi la sopravvivenza dei cittadini di Dogville, non c’è dunque un giudizio divino a cui affidarsi e tanto più viene a mancare un logica giustificazionista laica: il contesto sociale in cui sono nati e cresciuti, la società che li ha plasmati così, non sono più un alibi plausibile del loro essere così immondi e abietti.

Grace dunque si prende la responsabilità del diritto di vita e di morte in terra, nel bene e nel male.

In Manderlay proseguirà l’attività tirannica di Grace: la donna opererà come tiranno dotato di polizia, per imporre la libertà e la democrazia a ex-schiavi che non l’hanno mai conosciuta, anche in questo caso fallendo miseramente.

In questi film di Von Trier sembra che si debba dedurre un messaggio abbastanza chiaro sulla fiducia che ha sulla natura degli uomini, anche quelli più apparentemente innocui. Sull’idea che il potere è per sua natura un ordine di responsabilità e che sia simbolicamente sempre malavitoso e tirannico. Ma soprattutto che devono essere superati i valori tradizionali occidentali, qui rinnovati nelle mani della nuova eroina.

Questa eroina è di certo contro il potere ma al contempo ha potere. Ha misurato il limite della democrazia che è la forma di potere vigente, come fu nei secoli quella del cattolicesimo, e ritorna in viaggio in cerca della felicità cercando un’opposizione allo status quo, al potere dei tiranni, al potere della democrazia.

Di certo è un’eroina della differenza e del divenire. 

 

La donna resta permanentemente socchiusa, sempre pronta a colmare la distanza che la separa dagli altri. Ma è anche sempre tesa alla conquista di uno spazio tutto personale.

Lucy Irigaray



1 F. Nietzsche, La volontà di potenza, ed. Newton 2003, pag. 46.

2 Cioè dentro la stessa specie. Il premio Nobel austriaco sostiene che la violenza infraspecifica è praticata da tutte le bestie, ma solo l’uomo e il topo non la praticano sotto l’egida dei principi evoluzionistici. Konrad Lorenz, Il cosiddetto male, ed. Garzanti, Milano, 1964.

3 David Bowie è l’idolo e  modello giovanile di Von Trier.. Dichiarazione dal regista in Lars Von Trier, il cinema come dogma, conversazioni con Stig Björkman, Traduzione di Andrea Lissoni, Oscar Mondadori, Milano  pag. 29.  

4 Nell’approccio teorico di Von Trier sul cinema e sulla volontà di trasformarlo radicalmente c’è molta provocazione, quanto d'altronde ironia e sregolatezza. Spesso si tratta di “manifesti” che sembrano nati per essere traditi, rinnegati e superati il giorno dopo.

I diversi “manifesti” sul cinema  di Von Trier sono raccolti in Lars Von Trier e Dogma, Il castoro, milano 2001, pagg. 5-15. Noi individuiamo in quella di Lars Von Trier una pratica d’intervento politico e artistico che ha molto in comune con la tradizione situazionista.

5  Lars Von Trier, il cinema come dogma. Conversazioni con Stig Björkman, Traduzione di Andrea Lissoni, Oscar Mondadori, Milano pagg. 221-223.

6 Per ragioni di pertinenza non possiamo approfondire qui la figura della suddivisione in capitoli presente in molti film  di  Von Trier. Elemento frequente che non trova sempre motivazioni dell’autore particolarmente “scientifiche”. Nella bella intervista ad opera di autori vari contenuta in Il Dogma della Libertà, ed. della Battaglia, 1999,  a pag. 47 ad esempio Von Trier dichiara che la suddivisione in capitoli de Le onde del destino proviene solo dal desiderio «di fare qualcosa di simile a Barry Lyndon».

7 «Io intendo il pervertimento, lo si sarà già indovinato, nel significato di décadence: la mia affermazione è che tutti i valori, nei quali l’umanità oggi ha raccolto il suo supremo ideale, sono valori di décadence. […] Una storia dei “sentimenti superiori”, degli “ideali dell’umanità” – ed è possibile che sia io a doverla narrare – sarebbe altresì quasi la spiegazione del motivo per cui l’uomo è così pervertito». F. Nietzsche, L’anticristo, maledizione del cristianesimo, par. 6, Adelphi, Milano, 1977, pag. 7.

8  ibidem, par. 10, pag. 11.

9 Alexis de Tocqueville, La democrazia in America, cap. XIII, Classici Utet Torino, Vol. II, pg 627.

 

 

DOGVILLE
 
 

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