www.rifrazioni.net /poetiche/linee

 

L’ODIO SILENZIOSO DI UN PROFETA

 

Su Il profeta (2009, di Jacques Audiard)

 

di MARTINA BONICHI

 

«Questa è la storia di un uomo che cade da un palazzo di cinquanta piani. Mano a mano che cadendo passa da un piano all’altro, il tizio per farsi coraggio si ripete: “Fino a qui tutto bene. Fino a qui tutto bene. Fino a qui tutto bene.” Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio».

Dal nero dello schermo echeggiano le parole di Hubert e prende vita, al centro del quadro, l’immagine del mondo sul quale si schianta una bottiglia incendiata.

Immagini di repertorio ritraggono l’odio tra le bande nelle banlieue parigine e raccontano un giorno e una notte vissuta da tre ragazzi, un ebreo, un maghrebino ed un nero che si fanno scudo l’un l’altro contro un regime che li vuole allo sbando.

Sono passati circa quindici anni dalla realizzazione di  L’Haine (1995) di Matthieu Kassovitz. L’odio, nel film del giovane regista francese, emerge dalle parole, prorompe nelle immagini, si legge negli sguardi spietati e spersi dei tre protagonisti, nei ghetti delle periferie parigine, che si scontrano con la polizia dopo che un loro amico rimane vittima di un conflitto a fuoco.  Ora, alle 62a edizione del Festival di Cannes, con Un prophète, Jacques Audiard mette in scena l’odio contenuto e misurato di un giovane uomo che nascosto nella sua cella, impara le leggi del potere, intesse relazioni silenziose ed una volta imparato a convivere con i propri fantasmi, uccide il padrone, ormai indebolito e solo, assumendone il ruolo. Malik, occhi ed orecchie dei potenti, è un giovane francese di origini maghrebine che sembra non appartenere a nessuna razza, condividere nessun valore, aver fede in nessun credo. Ed è questa la sua arma, la legge alla quale si affida, imparando da ognuno: brutale come i corsi e riservato e discreto come i “fratelli” arabi.

Né cattolico, né musulmano, né francese e né arabo, ha in sé una curiosità tale da permettergli di diventare chiunque. Con solo cinquanta franchi nascosti nelle scarpe entra in galera tenendosi stretta la testa fra le mani. Le urla dei galeotti ed un violento sbattere delle celle dietro di sé lo trova smarrito, sperso, isolato in un mondo, lo stesso di fuori solo con dei recinti più stretti, in cui vede  sfilare di fronte a sé le bande dei potenti.

Le porte si aprono, i cancelli sbattono e le chiavi nelle serrature raccontano di vite messe in cattività. Nessuna immagine viene ancora mostrata e già i rumori di una galera introducono la realtà di un carcere francese mentre il nero dello schermo si lascia attraversare dai titoli di testa. Una forma circolare richiama l’iride del film muto. È la sua “mano negra”, quel vezzo di cui Audiard si serve già dal primo film, girato in super8, in cui mette in risalto un oggetto, una forma, lasciando in ombra il resto del quadro. Compare una mano, quella di Malik, poi le manette e la realtà di una storia carceraria prende vita. Occhi attoniti, impauriti, braccati seguono le voci fin dentro le celle che si richiudono alle sue spalle. Dopo un particolare ed un altro, l’immagine si mostra nella sua interezza ed un sipario sembra aprirsi sulla storia di un giovane uomo che dovrà scontare sei anni fra i grandi, quelli che fanno paura anche agli altri detenuti, quelli che corrompono i secondini, che mantengono i rapporti anche fuori e che detengono il prestigioso e  temuto ruolo di cattivo. Malik, quasi una figura pirandelliana, da inutile nessuno diventa profeta: chi vede lontano, chi ha la lungimiranza per capire che certe azioni comportano determinate reazioni. Scelto fra tanti nessuno, la banda più spietata, quella dei corsi, lo prepara al suo rito di iniziazione: uccidere un arabo. Rejeb, primo capitolo che racconta come l’uomo che Malik, deve avvicinare ed uccidere sarà una figura costante nei suoi silenzi, nei suoi sogni. Un fantasma che sembra sfidare, quando gli domanda, nel silenzio di una cella, sdraiato sul suo letto: «Sei qui?».

Reyeb è con lui, sempre, e non solo diventa la sua ombra con la quale parlare, la sua arma con la quale ha imparato ad uccidere, si fa anche la sua coscienza. Da semianalfabeta, Malik comincia a studiare, impara a leggere e sempre più, dentro di sé, acquisisce la consapevolezza che la sua legge è la sopravvivenza, il suo credo è emergere. Lontano dagli schemi dei film carcerari, da Un condannato a morte è fuggito, Papillon o Fuga di mezzanotte, Un prophète segue una realtà sociale attualissima della Francia di oggi e non solo, in cui un uomo ha bisogno di evolversi, tentando la scalata al successo per sopravvivere, solo con la furbizia e la scaltrezza, uniche armi che possiede. “Reyeb”, “Ryad”, “Jordi” sono i capitoli che scandiscono i tempi e le tele che intesse il giovane profeta finché il suo tempo ed i suoi giorni lo vedono prigioniero. Allo scadere del sesto anno, varcati i cancelli della prigione si avvia accanto al suo futuro, fatto di semplicità ed innocenza con una compagna ed un bambino, mentre dietro di sé sfila la nuova banda dei potenti di cui è ora lui stesso il padrone. Non c’è terrore, violenza o disperazione come nelle figure di Kassovitz, ma una calma misurata, un’attesa che si fa pressante ma coscienziosa, ed una precisione con la quale il protagonista è presente a se stesso, e che solo nei momenti in cui deve uccidere, per affermarsi, sembra perdere. Una lametta nascosta nella bocca ed una pistola, i cui colpi dentro una macchina lo stordiscono facendolo sentire leggero ed ormai in cima alla vetta, al di sopra di  ognuno, sono gli unici momenti in cui  si afferma nella brutalità di un malavitoso, una brutalità che non gli appartiene, un chiassoso modo di agire lontano dalla sua natura che lo vuole silenzioso, mentre nell’ombra afferma se stesso e raggiunge l’apice di un lungo apprendistato durato sei anni.

Il profeta, o “little big man”, come lo stesso regista racconta, è il nuovo prototipo di uomo. Lontano dal clichè del galeotto violento e spietato, Un prophète di Audiard è l’antieroe per eccellenza, quello che non può dominare sugli altri con la fisicità dei suoi muscoli ma con una scaltrezza innata, protesa al fine di una vendetta silenziosa che lo porta, da ultima pedina di un sistema gerarchico, alla sua vetta. Da schiavo a padrone, Malik diventa una parabola della modernità, un racconto morale nella sua amoralità, descrivendo con una distanza tale da oggettivare il bene ed il male come realtà uguali, entrambe descritte come mezzi per raggiungere la libertà di un giovane uomo – un simbolo, che non si vuole elevare ad eroe ma solo descriverne la paradossale ascesa che non si sarebbe mai avverata se non in prigione, sistema che ironicamente genera e rinforza quella stessa criminalità che dovrebbe sconfiggere.

 

 

IL PROFETA
 
 

- i n f o @ r i f r a z i o n i . n e t -