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A PROPOSITO DI NIENTE DA NASCONDERE

su Caché (2005, di Michael Haneke)

di SANDRO SPROCCATI

 

Cominciamo dalla fine. Nella sua tendenza alla mimesi del romanzo moderno, il classico prodotto del cinema – in quanto testo narrativo – prevede lo scioglimento della vicenda rappresentata come un luogo pressoché ineludibile. Il senso globale dell’opera fonde e coagula, sempre, in tale apice conclusivo (il botto finale) che collabora a definire lo statuto etico, oltre che linguistico, della narrazione cinematografica. Un luogo, quello dell’epilogo, dove i nodi vengono proverbialmente al pettine, e proprio per ciò del tutto sconosciuto alla vita reale: coincidente con il lieto-fine, insomma, o con una fine che sarà lieta anche quando essa fosse per avventura – ossia per scelta etico-ideologica – tragica e sconsolante: un luogo, infine, che la parola stessa “Fine”, “The End”, segna tutte le volte (anche se fosse furbescamente omessa) a suggello della completezza del messaggio imposto allo spettatore: la cui accezione, dico del termine “messaggio”, ma anche del termine “Fine”, scivola paurosamente, transitando su tutti i livelli di uno slittamento progressivo del piacere, ovvero della fruizione, dal campo della semiotica a quello del senso comune e delle regole condivise. Del resto, se c’è narrazione, se c’è il montaggio di eventi costruiti o immaginati in una successione cronologica di fatti, anche con tutto ciò che di eversivo rispetto a tale sviluppo potrebbero introdurre i flash-back, le prolessi e le analessi, gli scombinamenti vari dell’ordine temporale, dovrà pur esserci – occorre pensare – una “fine” che non sia una semplice e fortuita interruzione del testo, un punto su cui il dire si concluda dicendosi esaurito, un punto, dunque, in cui l’esaurimento fisico della pellicola coincida con la piena soddisfazione di ciò che era necessario sapere intorno a quanto la pellicola ha trattato.

Vi è il caso, naturalmente, che “la fine” venga a realizzare l’idea del racconto incompiuto poiché eticamente incompletabile, istituendo il luogo superiore e lo schianto di una “incompiutezza definitiva”... Ma in tale frangente sarà proprio la mancanza di scioglimento ad avocare a sé il ruolo di una conclusione, finendo dunque per esorcizzare, anche qui, ogni arbitrarietà di intervento nella chiusura del processo testuale... E vi è non di meno il caso – come nel film giallo (e prima ancora nel romanzo giallo, da Edgar Poe in avanti) – in cui l’epilogo giunge ad assumersi, “in proprio”, tutta la responsabilità morale dell’opera, ovvero l’incombenza di restituire, nella propria esibita missione rivelatoria, l’integro e ben costruito motivo della fiction, proiettando a ritroso una luce di con-prensione e di conoscenza prima della quale il racconto stesso non è stato che lenta pianificazione di un’attesa, senso parziale e incompleto, ricerca del motivo medesimo, desiderio dello scioglimento come teleologico culmine in cui i fili spezzati di una trama misteriosa vengono miracolosamente a ricongiungersi in un quadro ora unitario e sorprendentemente logico.

Nella pellicola di Michael Haneke Caché assistiamo invece al cortocircuito disarmante di una costruzione che da un lato insegue con amorose premure la classica sequela dei nodi del film giallo (misteri da risolvere, riemersioni inattese di un passato che era stato rimosso, presenza ossessiva di un male incombente, allusioni reiterate a violenze fisiche e psicologiche, metonimie di crimini perpetrati o da perpetrarsi, clima di terrore progressivo, di angoscia mortale, fatti sciagurati di sangue che esplodono dinnanzi agli occhi dei protagonisti e dei fruitori dello spettacolo) e dall’altro non esita a operare un’interruzione inattesa e inammissibile, nel corpo vivo e palpitante del racconto, là dove si interrompe il film: lasciandola cadere in modo pressoché casuale proprio là dove, nel percorso di uno sviluppo logico della vicenda – o, per meglio dire, nelle attese che di tale sviluppo il film ha generato – tutto rimane ancora insoluto e orbo di significato. Taglio arbitrario e feroce, occorre ribadire, in un quadro temporale di vita (presunta) vissuta che surrettiziamente il testo cinematografico ha deciso, altrettanto arbitrariamente (va da sé), di isolare per rappresentare... Rottura che interviene alla fine, in modo sconcertante, ma che in fondo è già intervenuta all’inizio, dove il discorso si apre e nel far ciò inevitabilmente interrompe “a caso” quel flusso di eventi che per definizione dichiara pre-esistente e più ampio, e sul quale, per potersi dare, il dire narrativo ha affondato la cesoia della propria scelta di “apertura”... Ossia, ancora, rottura che spezza alla fine il continuum (presunto) di eventi da essa esorbitanti (per definizione) allo stesso modo in cui l’ha spezzato all’inizio e tuttavia (per l’inizio, dico) in modo del tutto normale: sicché ci sarebbe da interrogarsi intorno a questa strana norma, da ciascuno perfettamente accettata, per la quale ciò che vale all’inizio – della pellicola, del racconto – non può valere ugualmente alla fine... E gioco forza ci sarebbe da riflettere sulla scelta di Haneke di mostrarne il paradosso assurdo o (magari, invece) del tutto naturale.

Ed ecco per tanto la fine: la scena conclusiva di Caché è un campo lungo a camera fissa su una scalinata di una scuola, dalla quale si suppone (ma non è certo) debba uscire, da un momento all’altro, Pierrot, il figlio del protagonista Georges. Dopo lunga attesa, mentre altri ragazzi si muovono, siedono, fumano e conversano a gruppetti sulla scala, appaiono invece i titoli di coda; e la pellicola termina senza che nulla del “mistero” proposto dalla narrazione sia spiegato... Del resto la scena conclusiva fa da péndant (evidentissimo) alla scena iniziale (campo lungo e camera fissa, dalla strada, sull’ingresso della casa di Georges e della sua famiglia). Ora, lo spettatore non può certo dimenticare mentre osserva l’una che l’altra si era rivelata, di lí a poco, nel proseguio del racconto, come un’operazione filmica “secondaria”, ovvero come un “film nel film”, l’opera di un ignoto autore di registrazioni clandestine su nastri magnetici. La trama di Caché è interamente giocata sulla presenza di tali filmati interni, incastonati nel film-cornice come altrettanti raddoppiamenti della realtà “primaria”, narrata come tale, e il giallo verte esattamente su questi nastri che qualcuno gira, senza farsi scorgere e per ragioni oscure, riprendendo semplicemente certi frangenti di vita che il film-cornice propone come reali e che tuttavia per lo piú omette di mostrare se non attraverso lo sguardo dei protagonisti che in televisione li osservano guardando le cassette. Ma tali frangenti, proprio perché mostrati con inquadratura dello schermo televisivo a tutto campo, il pubblico in sala finisce per leggerli – in prima battuta – come situati allo stesso livello di realtà del racconto-cornice, e si accorge che si tratta di “scene registrate” solo nel momento in cui Georges impone una pausa o un rewind per meglio decifrarli. Essi sono, d’altra parte, altrettanto reali dei fatti reali, poiché il meccanismo narrativo ci assicura che sono stati girati dal vero.

Cosí, giunto al mancato epilogo, lo spettatore finisce per soccombere a un dubbio tanto “esiziale” quanto splendidamente inutile, e persino onanistico: il sospetto che pure la scena finale, con la scalinata di scuola, sia in realtà vista attraverso lo schermo del televisore, grazie a un ennesimo nastro, magari da poco recapitato, che Georges e la moglie, insieme allo spettatore, stanno guardando. Il rivolto piú paradossale di tale legittimo sospetto discende, però, dalla constatazione altrettanto mortifera che, se pure cosí fosse, nulla cambierebbe nella vicenda e nel senso della pellicola... I films interni – che sono per i protagonisti spietate violazioni del patto sociale che dovrebbe garantirli, intrusioni nella loro vita privata da parte di una forza sconosciuta, denudamenti inaccettabili, forse strumenti di un ricatto non ancora formulato, prove del controllo costante che un “piccolo fratello” esercita su di loro, veri e propri intollerabili stupri telematici o cinematografici – sono invece per lo spettatore poco piú che elementi di compensazione narrativa, alla stregua di flash-back esplicativi. Perché, se rivestono nella logica del narratum il ruolo di oggetti interni (sia pure filmici), ossia precisamente di “corpi di un reato” (spionaggio, effrazione della sfera privata, ecc.), hanno invece il compito nella logica della narrazione di offrire informazioni altrimenti negate.

L’esempio piú pregnante è relativo al nastro che mostra il seguito della vicenda del primo incontro di Georges con Majid... Ma procediamo con ordine. Georges è stato condotto, da una cassetta in cui esso appare, a cercare un luogo che scopre come effettivamente esistente nella periferia della città in cui vive (Parigi) e a identificarlo come l’attuale abitazione di un suo vecchio compagno di infanzia, il bimbo Majid, rimasto orfano durante la guerra di liberazione algerina, che i genitori di Georges avevano adottato ma che Georges, bimbetto viziato e crudele, era riuscito a far allontanare con false accuse. I suoi antichi sensi di colpa e il legame che appare oggettivo tra le cassette e l’algerino (ora quarantenne) lo spingono a persuadersi che sia quest’ultimo l’autore del ricatto e dei films. Georges ne è convinto al punto da minacciare pesantemente Majid dopo aver fatto irruzione a casa sua, ma lo spettatore da subito tende a pensare che Georges si sbagli: vuoi perché il giallo si rivelerebbe in tal caso troppo semplice e banale (motivi esterni, psicologia della narrazione), vuoi perché Majid appare “sinceramente stupefatto” della visita di Georges (motivi interni, piano del narratum). La sensazione dello spettatore, spettatore del film di Haneke intendo, è di lí a poco confermata dalla fruizione di una nuova cassetta immediatamente successiva alla visita, la quale mostra lo stupore, l’amarezza e la totale sincerità di Majid lacrimante e disperato anche dopo che Georges se ne è andato. Qui, appunto, un dato altrimenti inconoscibile viene fornito allo spettatore tramite la fruizione della cassetta. Ma il medesimo dato, guarda caso, serve a Georges, che è piú di tutti fruitore del nastro magnetico, a rafforzare la propria convinzione circa la colpevolezza dell’algerino. Solo lui, secondo Georges, può aver girato la scena... e pertanto quel pianto cosí autentico sarà non di meno finzione a puro beneficio di Georges: Majid si dispera benché non sia piú in presenza di alcuno da persuadere, ma in realtà potrebbe farlo recitando una parte e sapendo benissimo che questo qualcuno poi lo vedrà piangere in cassetta...

Indecidibilità totale. A questo punto appare chiaro che nulla può essere chiaro né mai potrà chiarirsi. Tutte le distinzioni e le barriere tra verità e menzogna saltano, la finzione prende il sopravvento sul film: ossia quel sopravvento che essa ha da sempre, in qualsiasi film (di fiction, appunto); ma le vittime di tale statuto fittivo e falso divengono gli stessi protagonisti del film, i personaggi che – all’interno della propria condizione di elementi della finzione – dovrebbero rimanere immuni dal dubbio che il patto narrativo a cui soggiacciono sia solo un fenomeno linguistico, e che la finzione che li avvolge sia appunto solo una finzione. La quarta parete crolla, il patto narrativo si spezza. Ogni scena del film, anche quelle dichiarate reali, potrebbe essere frammento di una cassetta da qualcuno clandestinamente girata per ricattare Georges, il quale sarebbe ricattato e terrorizzato, in tal caso, solo in immagine su nastro... Questi a un certo momento ha un incubo: si rivede nella vecchia casa della propria infanzia insieme al piccolo algerino, e nell’incubo trasfigura avvenimenti (presunti) reali, ossia (realmente) accaduti (solo) in base al racconto che Georges ne fa alla moglie e che per noi spettatori è tecnicamente un flash-back. Ma la moglie, e noi con lei, non potrà mai sapere se ciò che Georges racconta è veramente accaduto, e noi – che assistiamo alla narrazione dell’incubo, tecnicamente un altro flash-back – non potremo mai sapere se le cose siano magari andate come nell’incubo invece che come nel racconto. Ma le cose sono realmente andate in qualche modo? E dove? No, con ogni evidenza, non sono andate, o meglio: sono andate da nessuna parte. Poiché esse vanno e non vanno esclusivamente in una finzione piú ampia e perciò ancor meno attendibile, il film di Haneke. Esso ci induce a supporre una realtà di accadimenti che già di per sé è mendace, e pretende di indurci poi a cercare di stabilire che cosa è conforme a tale mendacia-quadro e che cosa in essa è falso, ossia due volte falso, ossia (forse, pertanto) vero.

Un film geniale, che si disfa mentre si fa. Metalinguistico senza esserlo in modo dichiarato, un anti-film nell’accezione piú raffinata del termine. Anche la scena clou, la più drammatica, quella in cui vediamo Majid togliersi la vita per mezzo di un gesto atroce e improbabile, il lampo inatteso di una coltellata autoinferta che gli squarcia la carotide e la giugulare, in cui vediamo il suo sangue sprizzare ovunque, è recitazione e teatralità pura: con un pretesto egli ha chiamato Georges ad assistervi e, un attimo prima di agire, gli ha detto: «desideravo che tu vedessi questo». La moglie, Anne, dubiterà del racconto del marito: a giusto titolo. Pura visione, spettacolo, puro racconto... Un film che infatti produce su chi lo guarda l’effetto ambiguo dell’attrazione in un coinvolgimento accecante (la seduzione magica della regia di Haneke, capace di allestire un apparato tecnico-retorico di formidabile potere persuasivo) e simultaneamente della continua “messa in distanza”, del rigetto verso l’esterno, come per l’obbligo morale di far sentire allo spettatore l’incongruità del suo stesso lasciarsi catturare, come per sottolineare la menzogna dell’emozione estetica in generale.

Nella scena del suicidio, come del resto ovunque nella pellicola, si finisce per percepire la presenza sinistra e misteriosa di qualcosa o qualcuno che sta tra lo spettatore e la realtà rappresentata; in certo qual senso è come se prendesse anima e spessore la presenza stessa della rappresentazione; come se vi fosse un “regista” delle cassette registrate che non è affatto là dove Georges e Anne lo cercano (pur se in tale ricerca consiste il giallo, chi è?), che non è presso Majid o presso suo figlio, il quale vive forse l’ansia di vendicare il padre dal torto subíto ab origine; che non è in realtà nel film, ma piuttosto fuori di esso, in un altrove che non è però nemmeno la realtà nostra, di noi che il film e i nastri guardiamo confondendoli tra loro; è come se vi fosse qualcuno che ha registrato tutto: le cassette e i fatti che esse (ri)producono, Georges, Anne, Majid, i figli, i bimbi nella vecchia casa di campagna, i ricordi e le colpe; qualcuno che può tutto, anche collocare una videocamera in casa di Majid senza essere Majid o suo figlio, un regista-demiurgo la cui azione si impone e che tuttavia non è neppure Michael Haneke... Semmai un suo alter-ego, un pre-autore, qualcosa di simile a ciò che per don Chisciotte e per Cervantes fu il mitico Cide Hamete Benengeli, una cornice ulteriore rispetto alla cornice-film, un autore più interno e più arcano dell’autore Haneke, un regista immaginato dall’autore come autore dell’intrigo e della sua inestricabilità: qualcosa, anche qui, di assolutamente indecidibile... e intorno alla cui inesplicabilità tutto si piega.

 

 

 
 

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