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PRIMA E DOPO IL COLLASSO

 

FRAMMENTI SU DUE FILM DI MICHAEL HANEKE

 

di JONNY COSTANTINO

 

 

PRIMA DEL COLLASSO: Storie (Code inconnu, 2000)

 

 

 

Noi domandiamo, ma non riceviamo alcuna risposta.

Noi continuiamo a domandare.

Come la vita tutta quanta consiste di domande,

perché noi sempre e soltanto esistiamo

per il fatto che precisamente domandiamo,

ma non riceviamo una risposta.

 

Thomas Bernhard, Ungenach

 

L’inesprimibile

(ciò che mi appare pieno di mistero

e non sono in grado di esprimere)

costituisce forse lo sfondo sul quale

ciò che ho potuto esprimere acquista significato.

 

Ludwig Wittgenstein, Pensieri diversi

 

   

 

Parigi. In un istituto per sordomuti, una bambina sta mimando uno stato d’animo: con aria spaventata, indietreggia, sospinta da una fonte di pericolo, si assottiglia al muro, le ginocchia si piegano, si accovaccia; qualcosa di brutto sta per accaderle. I suoi compagni provano ad indovinare: sola - nascondiglio - gangster - cattiva coscienza - triste - imprigionata. I suoi occhi affranti e supplici esprimono dissenso.

 

Stacco su schermo nero, con l’esergo racconto incompleto di diversi viaggi.

 

Una giornata come tante. Anne esce di casa. Sull’affollato boulevard, un ragazzo le va incontro per chiederle dove sia Pierre. «È in Kossovo». Anne ha fretta, preferisce dialogare strada facendo. Si fermano dal fornaio. Jean è un adolescente inquieto. È scappato da casa perché odia la vita da fattoria che il padre gli offre. È il fratello di Pierre, l’uomo di Anne, attrice lanciata verso il successo. La donna gli chiede di aspettarlo a casa, gli dà le chiavi e gli dice il codice per aprire il portone. Jean ripercorre a ritroso la strada, si fa incuriosire da alcuni suonatori in uno spiazzo e, sovrappensiero, con spregio, lancia un sacchetto di carta appallottolato addosso a una mendicante nell’angolo. Un giovane senegalese, Amadou, lo blocca, lo riprende per il gesto e gli chiede di porgere le sue scuse alla donna. Si azzuffano; subito si forma una calca. Sopraggiunge Anne. Amadou cerca di spiegare l’accaduto. Arrivano due poliziotti. Amadou viene brutalizzato e condotto al commissariato. Maria, la mendicante, rimpatriata in Romania.

 

Tutto in un travelling laterale, un unico, stupefacente piano-sequenza, reciso improvvisamente da un black-out dal quale emergono delle foto di guerra, commentate dalla voce-off dal fotoreporter Pierre.

 

Frammenti di quotidianità affiorano da una tenebra compatta: il difficile rapporto di Jean col padre; la storia d’amore tra Anne e Pierre; il viaggio e il rientro clandestino di Maria; le vicissitudini, anche sentimentali, di Amadou (educatore musicale per sordomuti, nell’istituto frequentato dalla sorellina) e della sua famiglia.

 

… … …

 

Il meticciato parigino è l’emblema della condizione metropolitana.

 

Vocabolari differenti si confrontano, ma lo sforzo per una comunicazione forte, solo eccezionalmente – nei pochi attimi in cui la vita è sopportabile – non è fallimentare.

 

Sparuti barlumi di felicità oltraggiano la sofferenza e il dolore.

 

Haneke riprende il discorso da 71 frammenti di una cronologia del caso (1994). Ancora una volta, debella l’idea della “messinscena totale”, di una riproduzione della realtà presuntuosamente integrale, e sceglie la frammentazione. Lì, in 71 frammenti…, le vicende umane raccontate, senza interdipendenze e collisioni, convergono in un apice narrativo violento – come in Nashville e, soprattutto, in Short Cuts di Altman – un apice così straniato e stilizzato da essere assimilabile, solo strutturalmente, ad un clichè. In Storie, un riverbero altmaniano è udibile nello scontrarsi e notarsi, peraltro parsimonioso, dei personaggi. Ma qui invece di una convergenza tragica, vi è una divaricazione sussurrata, senza strepito, delle loro sorti.

 

Teso in uno sforzo di precisione umana, Haneke accantona le tanto amate geometrie, per raffigurare, con una trasparenza più misurata e, ossimoricamente, viscerale, ciò che trasforma la vita in una “mostruosa offesa”: la prevaricazione (i poliziotti), l’insulto (il giovane arabo), il sadismo (il regista), la brutalizzazione (verso la bambina sordomuta), il bisogno umiliante (Maria), il razzismo (verso Amadou); la guerra. Non si preclude un varco (l’amore di Amadou) e, per rispetto dei suoi personaggi, omette l’ultima parola sul loro destino.

 

L’orrore, nella sua gratuità, non viene deprivato della realtà; la violenza non è esasperata nei presupposti e nelle cause (non vi sono vendicatori), non è stemperata dal grottesco o dal pulp, è quotidiana e inconsumabile.

 

Haneke si sofferma sulle conseguenze, sul dolore dei destinatari, sull’annichilimento del dopo: la fatica, così poco eccitante, di Benny per pulire tutto il sangue della sua giovane vittima; il rivedere l’assassinio sui volti sgomenti dei genitori (Benny’s Video, 1992); la lunghissima, insopportabile inquadratura dei coniugi inerti, devastati, nella stanza in cui giace il cadavere del figlio (Funny Games, 1997); il lento allargarsi della pozza di sangue sotto il corpo esanime di Hans (71 frammenti di una cronologia del caso). Così in Storie, durante il funerale della bambina, assistiamo al contegno dei carnefici e al silenzio di chi sarebbe potuto intervenire; riceviamo il contraccolpo di violenze minori nel pianto di Anne, di Maria e della madre di Amadou.

 

Il merito di Haneke non risiede solo nel collocare la violenza aldilà d’una identificazione consolatoria, ma nel dipanare una voragine morale sulla rappresentazione di azioni e decisioni eticamente aberranti – Anne non appura la fondatezza del messaggio di aiuto della piccola; i genitori di Benny decidono di disfarsi del cadavere della bambina – e, al tempo stesso, umanamente comprensibili.

 

Quante volte non abbiamo riconosciuto una fonte di pericolo?

Cosa siamo disposti a fare per difendere le persone che amiamo?

 

Code inconnu (“codice sconosciuto” che allude al sistema francese per aprire i portoni) è girato in pianosequenza. In un’unica inquadratura, si scatena una plurima e simultanea dialettica:

tra figura e sfondo; tra le quinte e il fuori campo (il non visto, spesso in forma di acusma, di fantasma sonoro, ha sempre un valore decisivo nel cinema di Haneke); tra i movimenti di macchina e le azioni, anche minime, degli interpreti; tra immagine in movimento e immagine fotografica (le foto di guerra e in métro sono di Luc Delahaye); tra il visto/immaginato e l’udito (la fonte sonora è sempre giustificata diegeticamente al momento dell’emissione, non v’è musica di buca; dietro l’apparente naturalismo, si cela una raffinata elaborazione cromatica, il suono d’ambiente è perfettamente avvolgente).

 

È un movimento centrifugo che alimenta una pluralità di relazioni, interpretazioni e dissonanze.

 

Haneke filma oggettivamente, bistratta il prepotente avvicinamento immedesimante operato dalla soggettiva.

 

La distanza è la via più breve (Thomas Bernhard, Amras) – la via più breve, aggiungerei, per stabilire un rapporto critico e contemplativo con una qualsiasi rappresentazione. Nella distanza ci si appropria degli squarci di vita registrati. Nella poetica di Haneke, la distanza è il compimento di una rigorosa disciplina interiore, inscindibilmente etica ed estetica, che si estrinseca con fiduciosa, velatamente provocatoria, sottigliezza.

 

Il pianosequenza parte con ritardo, sepolto, per secondi, forse minuti, dal nero – colore ideale di un’arte radicale, come voleva Theodor W. Adorno (Teoria Estetica) – che ha offuscato il precedente. Lo stacco di montaggio arriva come un violento colpo di saracinesca. L’antefatto e il seguito sono solo deducibili.

 

Prima l’effetto, poi, forse, la causa. Bresson docet.

 

Vi è una sequenza in cui la sintassi si annacqua, appiattendosi su soluzioni consunte: nella piscina di un attico, Anne flirta con un uomo (in controcampo); un bambino sale sul cornicione, vacilla (il punto di vista si ribalta in un terrifico scavalcamento di campo), inciampa ma non cade – sfogo di sollievo. Ma questo è solo cinema. La sequenza è il girato di un film che Anne e un collega stanno doppiando in studio.

 

Nella misura in cui tale scarto visivo viene percepito risiede la possibilità della reazione alla degradante assuefazione all’immagine-merce.

 

Un grande pianista… suona note rigorosamente uguali…

Non applica l’emozione sui tasti.

L’aspetta.

Ed essa arriva ed invade le sue dita, il pianoforte, lui, la sala.

 

Robert Bresson, Note sul cinematografo

 

Haneke sottrae spiegazioni per dilatare l’intensità delle emozioni.

 

Come Bresson, ne tocca il cuore attraverso una pervicace resistenza.

 

Diversamente da Bresson, le immagini non nascono in previsione della loro associazione interna. L’intensità non è data dal montaggio, dal risultato tra le inquadrature. Non v’è raccordo tra esse. Seppure all’interno d’una progressione, sono intercambiabili. Pur presupponendo tutte le precedenti, ogni inquadratura possiede un coefficiente di trascendenza.

 

Il montaggio che dà il respiro è interno all’inquadratura, ed è un lavoro d’incisione sul tempo.

  

L’inquadratura non si esaurisce; la cesura macchinica può solo ridurla al silenzio – la sua fine è virtuale. Essa rimane mutilata da una duplice frammentazione, drammaturgica e percettiva.

 

Le parti asportate sopravvivono.    

 

Il piano-sequenza diviene inquadratura infinita, che si articola, si completa o muore nella testa e sui nervi dello spettatore, che dà un senso, alla luce della sua esperienza e sensibilità (forse il padre di Jean è diventato così dopo aver perso la moglie; forse il portone resta chiuso a causa di un nuovo amore).

 

Sulla base di una scrittura ferrea, la realtà viene lasciata libera di germinare nell’aura dell’inatteso e dell’immaginabile.

 

L’immagine non castra il pensiero, imponendo la coatta sovrapposizione di un’idea sul mondo, ma determina un incontro di idee, una ri-definizione del mondo stesso.

 

La ripresa, più che mai, diviene evento.

L’urgenza di verità inabissa l’intreccio.

 

Haneke ha catturato delle verità negli interstizi della realtà.

 

È molto e rimane molto anche se cediamo all’impertinenza di chiederci se la volontà di verità non sia, in fondo, una volontà d’illusione all’ennesima potenza.

 

 

Bologna, autunno 2000

 

 

DOPO IL COLLASSO: IL TEMPO DEI LUPI (Le temps du loup, 2003)

 

 

Stanca di durare, di intrattenersi ancora con se stessa,

l’Europa è un vuoto verso il quale muoveranno ben presto le steppe…

un altro vuoto, un vuoto nuovo.

 

E. M. Cioran, La tentazione di esistere

 

 

Siamo in Europa. Un’automobile carica di provviste posteggia di fronte a una casa isolata tra gli alberi. Aperta la porta, i proprietari vengono accolti dal fucile imbracciato dal capofamiglia del malmesso manipolo che si è insediato nella dimora. Ciò che li aspetta non è un tranquillo week-end di paura, né un sadico mortifero gioco al massacro in stile Funny Games (1997). I nuovi arrivati si dicono ben disposti a trovare una soluzione pacifica, c’è infatti di che vivere per entrambe le famiglie, almeno per un po’. Appena dopo qualche minuto, senza pretesto, l’uomo con l’arma fa fuoco. Ora, sul volto della donna al suo cospetto, Anne, c’è il sangue del marito, Georges. Trascinato fuori il cadavere del pater familias, la madre coraggio (Isabelle Huppert) e i figli Eva (14 anni) e Ben (10 anni) iniziano a brancolare randagi in una natura istoriata da carcasse di ovini sventrati e uomini, in una notte illuminata da cataste di mucche in fiamme.

 

Nella radura ferina in cui si ritrovano gettati, sopraffatte da quelle primarie, le istanze civili svaniscono, mentre la logica dell’homo homini lupus si attua senza freni mondani. Per salvare la pelle urgono artigli puntuti. Nulla di romantico o aureo in questo ritorno coattivo alla natura. Ogni richiesta di aiuto s’infrange contro un muro di indifferenza o risentita elemosina. Intanto, il mutilo nucleo viene accolto da una rudimentale comunità, formatasi intorno a una stazione ferroviaria in disuso, che vediamo allargarsi e organizzarsi, imponendosi delle regole. Ma perdura la condizione di mutua aggressione che vige fuori dal patto sociale, con l’aggravante che ora sono disponibili strumenti di sopraffazione più efficaci e raffinati. In primis, la dura lex applicata con l’alibi del bene collettivo. [1] I più fragili non ce la fanno: come la cocorita di Ben, soccombono anche la bambina malata, privata dell’acqua necessaria, e l’adolescente violentata, che muore suicida.

 

Il titolo originale, Le temps du loup (2003), trae l’ispirazione dalla 45ª strofa della Profezia della Veggente, ouverture del Canzoniere eddico:

 

Si colpiranno i fratelli e l’uno all’altro daranno morte;

i cugini sopprimeranno i vincoli di parentela:

crudo è il mondo, grande il meretricio;

tempo di guerra tempo di spada vanno in pezzi gli scudi

tempo di bufera tempo di lupo prima che il mondo rovini;

neppure un uomo risparmierà un altro.

 

In principio, la sceneggiatura prevedeva una durata di circa tre ore, delle quali la prima ambientata in un quartiere per ricchi di una capitale europea, iperprotetto dalla polizia. Quando la situazione iniziava a degenerare, venendo meno beni e risorse energetiche essenziali, una famiglia decideva di spostarsi alla volta della sua casa in campagna, fiduciosa che lì la vita sarebbe stata più facile. Come spiega il regista («Sight and Sound», XI/2003), gli eventi dell’11 settembre hanno reso superfluo un simile antefatto e ininfluente la tipologia di sciagura che manda a scatafascio la civiltà occidentale.

 

Haneke pone altri e più concreti interrogativi. Cosa fare quando ciò su cui si adagia la nostra esistenza non è più scontato, quando l’elettricità s’interrompe e l’acqua diventa impagabile, quando un accendino vale più di un Rolex? Come reagire sotto tale pressione?

 

La messa in crisi dello spettatore è proporzionale alla vicinanza tra la sua quotidianità e la realtà ricreata. Il cineasta austriaco bandisce tutte le forme di esagerazione sistematica degli eventi sulle quali, invece, s’impernia il tipico disaster movie, dove l’obiettivo è rendere fantasmagorica l’evasione e distanziare l’irrealtà del fuoco d’artificio inscenato dal presente di chi guarda, tutelandone di conseguenza lo statuto di consumatore passivo di immagini. [2]

 

Al contrario, la messa in scena di Il tempo dei lupi mira a stabilire un’intensa empatia tra noi e i personaggi, adattandosi alla loro effettiva percezione ambientale. La fotografia si modula, ipersensibile, sulla piena, scarsa o nulla visibilità che essi hanno degli spazi entro cui si muovono: le inquadrature sono buie, terse o lattiginose come la notte, il cielo limpido o la nebbia. Non v’è “colonna sonora”.

 

L’eccesso di realtà disturba. Nella versione italiana, è assente il piano ravvicinato in cui si vede sgozzare un cavallo, comunque destinato, fuor di finzione, al macello. Mette i brividi la cattiva coscienza di una società carnivora che ipocritamente si rifiuta di assistere alla sorte a cui ogni giorno destina gli animali, oltretutto all’interno di un contesto discorsivo ed estetico che legittima ampiamente la mostrazione.

 

L’esacerbato realismo del film non rappresenta un limite della figurazione, ma conferisce ulteriore pregnanza emotiva a impaginazioni di indefettibile rigore formale. Si pensi allo stilizzato funerale della bambina polacca, ripreso entro un campo medio popolato da mezze figure inferiori e percosso da un pianto lancinante in sottofondo. In profondità, una macchia di luce avanza sfuocata. Potrebbe essere il treno che tutti aspettano, che forse vuol dire salvezza. Appare di seguito un altro alone. La messa a fuoco rivela e riduce l’entità sullo sfondo: torce che fanno strada a una fiumana di altri profughi.

 

Ora sappiamo che la civiltà è mortale,

che galoppiamo verso orizzonti di apoplessia,

verso i miracoli del peggio,

verso l’epoca d’oro del terrore.

 

E. M. Cioran, Sillogismi dell’amarezza

 

Michael Haneke continua a riflettere sulla brutalità e sulle forme più o meno larvate di cattività attraverso cui si consuma l’esistenza nella società di massa, indagando quel che ne resta, i rimasugli del dopo storia, mostrando il processo di (ri)addomesticamento e il riproporsi delle vecchie tare, talvolta in modo meccanicamente didattico, altre snudando, con precise, minimali notazioni, la microfisica del potere che governa la situazione (emblematico è l’assorbimento del piccolo gerarca Koslowski, impersonato da Olivier Gourmet, nella più organica struttura di potere che assume il controllo del prostrato microcosmo) o l’ineffabile drammaticità, tenerezza, atrocità di un momento (è struggente lo sguardo che il vecchio polacco rivolge alla moglie, come lui allo stremo delle forze, mentre vuota la ciotola di latte di cui si è privato per lei).

 

Il film fa seguito all’apologo sull’esaustione dell’Occidente inscenato in Il settimo continente (1989), dove una lenta necrosi esistenziale s’impadronisce di Georg, Anna e della piccola Eva, omonimi dei famigliari di Il tempo dei lupi, i quali si ritrovano imbottigliati nell’agio borghese di una vita alienata e vacua, e iniziano a sognare l’Australia. Con l’alibi del viaggio, svuotano il conto in banca, fanno provviste in abbondanza e si tumulano in casa. Comincia la distruzione sistematica di tutti i loro averi. Il suicidio è ormai programmato. Il regista non inscena conflitti: i protagonisti sono rassegnati destini di morte. La loro discesa agli inferi è scandita dall’ultima opera di Alban Berg, il concerto per violino Alla memoria di un angelo, nel quale il compositore cita la cantata di Bach O Ewigkeit, du Donnerwort, dove la decisione estrema diventa musica, irrevocabile: «Basta. Se questa è la tua volontà, Signore, concedimi la pace eterna».

 

Quando anche la musica è impotente a salvarci,

un pugnale luccica nei nostri occhi;

niente più ci sostiene se non il fascino del crimine.

 

E. M. Cioran, Sillogismi dell’amarezza

 

In Il tempo dei lupi, Haneke sviluppa nel macro e in termini apocalittici la parabola sull’illusorietà di ogni sicurezza materiale, dell’ideale di benessere sul quale si edifica la società dei consumi. Tuttavia, se la gelida catabasi del film dell’89 si dipana inesorabile dentro una cella della prigione sociale, ambientando fuori di essa l’ultima opera, Haneke socchiude uno spiraglio. Non smussa la sua visione: il male è e resta radicato nell’uomo: «L’uomo secerne disastro», può dire col filosofo Emil Cioran. Ma c’è una chance nella terra desolata, finché anche una sola anima si lascerà toccare dalla musica… Da un vecchio mangianastri, si diffonde nel container l’adagio molto espressivo della sonata per piano e violino di Beethoven La primavera. Giunge a Eva, incantata, tra la calca degli accampati. Chiederà al ragazzo che ha premuto play di riascoltarlo…

 

Scrive Haneke: «La speranza è la spina dorsale delle vittime». I suoi dannati non smettono di credere in qualcosa che dia senso alla sofferenza e impedisca lo sprofondamento nel nulla. Nell’accampamento, circola la leggenda dei Trentasei Giusti della tradizione ebraica: essi sono gli eletti, dalla loro esistenza dipende quella del mondo, la morte di uno solo sarebbe la fine. C’è invece chi, come il Mangia-lamette, preferisce credere nei fantomatici Fratelli del Fuoco, i quali si immolano, tuffandosi nudi tra le fiamme, per salvare gli uomini. Questa storia suggestiona Ben. In piena notte, tutti dormono, il piccolo s’incammina verso il fuoco, lo alimenta con rami frondosi e si spoglia, pronto al sacrificio. Chi interviene e lo salva è proprio Jean, colui che era stato tipizzato, nel corso della narrazione, come uno xenofobo gretto e rissoso. Adesso, mentre stringe tra le braccia il bambino, paterno, cerca di rassicurarlo. «Volerlo fare è come averlo fatto», gli sussurra. Volerlo fare…

 

A proposito di Sacrificio (1986), il suo testamento, Andrej Tarkovskij scrive: «L’uomo contemporaneo si trova a un bivio e deve risolvere un dilemma: se proseguire la sua esistenza di cieco consumatore alla mercè dell’inesorabile incedere delle nuove tecnologie e dell’ulteriore accumulazione di beni materiali, oppure cercare e trovare la strada che conduce alla responsabilità spirituale che, in ultima analisi, potrebbe diventare una realtà in grado di salvare non solo lui stesso individualmente, ma anche la società» (Scolpire il tempo).

 

La cinepresa scorre all’indietro lasciando al proprio destino le sagome di Ben e Jean, il razzista redento, divenute un’unica pietà, contro la luce del fuoco. Con un’ellissi da capogiro, Haneke stacca su un piano-sequenza che fende la natura a velocità sostenuta. Siamo in treno. Fisso contro il finestrino, immerso in uno scenario incorrotto da ansie e miserie troppo umane, il nostro sguardo riempie una soggettiva senza soggetto e corre fin dove cuore e cervello arrivano a guardare.

 

Bologna, estate 2004

 

 

 
 

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