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LA LUCE DELLA VERITÀ, DA LONTANO...

 

su Teza (2008, di Haile Gerima)

 

di MAURIZIO INCHINGOLI

 

 

Un sogno, una luce che si avvera, il tentativo di ritorno alla vita di una nazione, nella speranza di cambiare gli scenari. Il fallimento, forse, delle utopie, l'ideologia calpestata e una marcia dentro, come un covo di aspidi che cresce impunito sottoterra, figlio dell'ingordigia e della sopraffazione, ontologicamente fallimentare, e forse la fine di un sogno.

Teza del maestro etiope Haile Gerima è un film che ci esorta a vedere attraverso i corpi martoriati, violentati dalla sopraffazione e dalle ideologie, ancora; corpi e cervelli che vivono una forte dicotomia interiore, combattuti tra l'emancipazione intellettuale e la lotta per la sopravvivenza quotidiana, figlia delle piccole cose, della disperazione, del fallimento dell'uomo comunemente inteso come moderno.

Forse però non siamo mai stati moderni verrebbe quasi da dire, troppo antropologicamente attaccati alla materia, troppo legati alla messinscena di codici e comportamenti di facciata, traditi invece dapprima nella mente, poi attraverso la violenza visiva, visibile, oggettuale, oscena.

Un gruppo di persone, distante dalla terra di origine, vive con il giusto distacco e la sacrosanta passione la caduta dell'impero di Haile Selassie, grande-piccolo, fallimentare essere umano, condottiero triste di una nazione votata al fallimento economico, ancora troppo legata a doppio filo alle ferite provocate dalla guerra contro i coloni italiani del governo fascista di Benito Mussolini, visibili come una cicatrice profonda che sanguina ancora copiosa nella memoria del popolo etiope.

Lo stesso Gerima ormai ha abbandonato, ma solo fisicamente, la sua terra nel lontano 1968 per dedicarsi all'insegnamento delle teorie del cinema presso i college americani, e con grande onestà intellettuale vive un percorso personale fatto di ricordi e di lotta per affermare il diritto di esistere di un popolo antico ed affascinante come quello della sua nazione martoriata da lotte intestine fratricide e suicide. Ricordiamo a questo proposito un film importante, politico nell'anima, come Il Raccolto dei 3000 anni (Mirt Sost Shi Amit, 1975).

Teza è un tentativo, riuscito, di ricognizione storica della sua terra attraverso la storia emblematica di Anberber, impersonato da un grande ed espressivo Aaron Arefe, che emigra nella Germania comunista degli anni ’70 a studiare medicina per poi tentare di ritornare in patria nella speranza di debellare tutte le malattie infettive che colpivano la popolazione del posto, invischiata nella povertà più assoluta, e sempre in preda di lotte intestine inutili e dannose per un popolo che ha dovuto subire a più riprese le angherie di famelici conquistatori, inetti e legati al concetto della sopraffazione violenta sul più debole. Una terra bellissima, solare ma anche in un certo senso mediterranea, con un paesaggio mozzafiato, con la nebbia mattutina che avvolge i villaggi all'interno di conche geografiche naturali altamente suggestive. Una non solo metaforica foschia, una coltre fumogena che tutto copre e tutto cambia, come di nascosto, ma che non riesce a spazzare via la maledizione di un popolo che ha una forte identità, che non riesce ad esprimere tutte le sue eleganti, ancestrali potenzialità.

Haile Gerima si aggira discreto nei meandri di una storia drammatica, della sopraffazione, come tante, ed alterna momenti altamente poetici a stralci di violenza sorprendente, che squarciano quasi la pellicola, come a ribadire che il pericolo è dietro di noi, che noi siamo gli artefici della bellezza del mondo, ma che siamo anche in grado, in un solo fulmineo istante, di mostrare tutta la meschinità di cui siamo capaci, quasi incoscienti, come ipnotizzati. Anberber è mutilato come la sua terra, sta seduto davanti alla sua casa, pensa intensamente a come cambiare lo scenario attorno a sé, lotta contro la sua famiglia, il suo interesse personale, ci prova con tutte le sue forze, ma il suo evidente handicap gli impedisce di agire come vorrebbe; a volte pensa a come sono andate le cose della sua vita, rivede nei grandi e tristi occhi dei ragazzini del villaggio tutta quella vitalità repressa e quella debolezza dalla quale è quasi impossibile affrancarsi, ed i suoi occhi sono lì a testimoniare tutta la rabbia e l'impossibilità di agire. Il sacro fuoco dell'uomo si è incarnato in questo corpo monco, ma ancora capace di pensare e di insegnare ai bambini le regole della matematica e della ragione, nella speranza di assistere ad un cambiamento che forse avverrà, o forse no, chissà...

Teza come un disperato saggio di storia moderna, come la possibilità di ribadire che l'uomo è un animale evoluto, anche suo malgrado, e nonostante le brutture della quale si circonda diabolico. Il diavolo probabilmente, o forse solo uno spirito fattosi carne e ossa che va combattuto strenuamente, ricordando a se stessi che il miglior nemico dell'uomo è l'uomo stesso. È in quel momento quindi che vediamo la luce della verità, lontana, ed è in quel preciso istante che dobbiamo far luce ancora su noi stessi, correre velocemente per ritrovare uno spiraglio, per alimentare la bellezza del mondo, estraendola a forza dalle nostre meningi e dai nostri muscoli affaticati. Un’utile prova di forza, uno sprone alle nostre volontà dormienti e narcotizzate. Un esempio nobile dalla quale trarre una sola, vitale lezione di vita.

 

 

 

 

 
 

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